di ALCIDE PAOLINI
La virulenza dello scambio epistolare tra il segretario del Pd, Franceschini, e quello dell’Idv, Di Pietro, sia a proposito del referendum sia in occasione delle ormai vicine scadenze elettorali (europee e provinciali) e quindi delle scelte riguardanti le presentazioni delle liste, mostra da sola la situazione allarmante in cui si trova l’opposizione, che non riesce a darsi né un’identità politica comune né una strategia elettorale che, pur mantenendo le rispettive esigenze partitiche, tenga presente la necessità di fare fronte comune nei riguardi di una maggioranza in crescita costante. «Non vogliamo inseguire il Pd in una campagna fratricida, siamo disponibili a un’alleanza, ma senza insulti».Così aveva scritto Di Pietro, consapevolmente (almeno così sembrava), rispondendo a una serie di dure frecciate di Franceschini a proposito della sua intenzione di candidarsi come capolista alle europee e di correre da solo in parecchi Comuni e Province, favorendo Berlusconi. Accuse alle quali erano seguite altre di Di Pietro, che aveva bollato di «inciucio criminogeno» l’accordo con la maggioranza sulla data del referendum. Insomma, il clima tra i due partiti, che per la verità non è mai stato idilliaco, si è guastato ulteriormente e non si capisce dove entrambi i segretari vogliano andare a parare in vista delle imminenti consultazioni elettorali. Lo scambio, tuttavia, ha ribadito una volta di più la difficoltà dei due partiti di trovare un modus vivendi, pur tenendo nel debito conto le prerogative politiche di ciascuno. Ma che cos’è che si rimprovera in modo particolare a Di Pietro, anche al di fuori delle querelle riguardanti il momento elettorale, ormai alle porte, e che si potrebbero quindi definire fisiologiche, essendo del tutto naturale che ciascuno pensi anche a se stesso? Non certo la politica basata, sia pure genericamente, sulla difesa delle classi più deboli, come sostiene l’ex pm, ma, ovviamente, quella rivolta in modo quasi esclusivo al giustizialismo, di conseguenza contro Berlusconi e chiunque cerchi anche solo di dialogare con lui. Rimprovero in sé condivisibile, sia perché la politica non è solo giustizia, nel senso della sua amministrazione, ma molto altro, sia per il fatto che, piaccia o meno, Berlusconi è stato eletto dai cittadini, sia pure con l’aiuto della sua ricchezza e del suo impero mediatico, che però nessuno si è impegnato seriamente a contestare. D’altra parte, non si può negare che la situazione politica in cui si è venuta a trovare l’Italia è del tutto anomala per una democrazia parlamentare. Basti pensare al fatto che la maggioranza, intesa come l’insieme degli uomini di governo e del Parlamento, in pratica non esiste, nel senso che esiste soltanto un capo, una sorta di monarca, che tutti rappresenta e dal quale tutto discende. La realtà è lì a dimostrarlo. Se n’è accorto anche Veltroni, fautore del dialogo, quando si è dovuto chiedere su che cosa avrebbe potuto dialogare. Perché il dialogo presuppone che ci sia, da parte di chi lo accetta, la disponibilità a convenire su qualche punto importante. Ma c’è qualcuno disposto a credere che Berlusconi sia aperto a confrontarsi su un problema rispetto al quale ha già le sue idee? Quando il Cavaliere ha una sua opinione, il fatto di doverne discutere, fosse pure con la sua maggioranza, lo indispone. Figuriamoci con l’opposizione! L’illusione di Veltroni (e di molti altri) è stata, infatti, quella di poter avviare una stagione politica nuova nei rapporti col premier, basata appunto sul dialogo: ma ben presto ha dovuto constatare che l’unico dialogo possibile era quello sui problemi rispetto ai quali il suo parere corrispondeva a quello che il premier aveva già fatto suo. Per Berlusconi, si sa, non esistono interlocutori (se non tecnici) sulle questioni politiche, neanche nella sua maggioranza, che molto spesso lo infastidisce. E se qualche volta ha accettato di cedere (si fa per dire) a un Bossi è solo perché (come nel caso del referendum) non poteva rischiare la perdita di quei voti che potrebbero consentirgli, domani, di raggiungere quel 51% che costituisce ormai il suo sogno: la possibilità di poter realizzare finalmente ciò che ha già in testa, a partire da una legge istitutiva per un presidenzialismo all’americana, magari privata di quei correttivi, alcuni molto severi, che negli Usa limitano il potere del presidente. Insomma, una lotta politica, nella sua accezione democratica, svuotata di ogni possibile contestazione parlamentare e presidenziale. Ed è per questo che Di Pietro, personalizzando la sua battaglia politica, può aumentare il suo consenso: perché si è attrezzato in modo da raccogliere tutti quei voti (e non sono pochi) che dalla sinistra più dialettica e, perché no?, più arrabbiata intellettualmente rischiano altrimenti di andare a ingrossare le file degli astenuti. Cosa debba e possa fare il Pd a questo punto non è facile dirlo, ma è evidente che, non potendo permettersi di perdere altri voti alla sua sinistra, dovrà rassegnarsi a trattare con Di Pietro e magari perfino imitarlo, almeno in parte. Anche perché non è escluso che finisca per essere proprio l’ingordigia di potere a portare alla caduta Berlusconi. A volte capita.

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