sabato 25 aprile 2009

RASSEGNA STAMPA: IL PICCOLO


VERSO LE ELEZIONI
Nel Pd le speranze di rappresentanza territoriale affidate alla Serracchiani
di MARCO BALLICO
TRIESTE Non c’è Roberto Dipiazza: lo conferma una volta ancora il diretto interessato. Ma non c’è nemmeno un’alternativa regionale. Perché, caduta l’ipotesi del sindaco di Trieste, al Pdl del Friuli Venezia Giulia non è stato chiesto di esprimere candidati per le europee. Decide Silvio Berlusconi, che vuole un mix di esperienza e di giovani. Solo lui potrebbe calare dall’alto, all’ultimo minuto, un nome locale. Ieri sera, a rimbalzare, c’era quello di Manuela Di Centa. LA LISTA «I candidati non li decidiamo noi», ha ripetuto più volte Isidoro Gottardo, coordinatore regionale del Pdl. Che ieri non aveva nuove dichiarazioni da fare, a parte chiarire che Berlusconi non aveva ancora ufficializzato le liste. Ma quell’elenco, dopo tre giorni di riunioni nella capitale, è pronto. Contiene i nomi degli europarlamentari uscenti, con qualche lieve sforbiciata, e una pattuglia di giovani, soprattutto donne. LE DONNE A quanto pare, infatti, Berlusconi guarda al mondo femminile, in particolare alla tv e al cinema, dove avrebbe pescato candidate prive di esperienza politica, cui ha tra l’altro riservato in settimana (ospiti anche giovani parlamentari del Pdl) un corso di formazione politica per l’Europarlamento. IL NO DEL SINDACO «Voglio volti giovani e facce nuove» ha detto Berlusconi, deciso a stupire nella definizione delle liste prendendosi l’assoluta libertà delle scelte. Il Friuli Venezia Giulia? È possibile che resti senza candidati. Di certo il sindaco di Trieste ribadisce il suo no: «Ho detto che non avrei corso nemmeno se me lo avesse chiesto Berlusconi. Di più: non corro neanche se me lo chiede il Padre eterno». SENZA ALTERNATIVE Dipiazza ripete che «c’è troppo lavoro da completare a Trieste, dal Porto vecchio al Porto nuovo, fino all’acquario e tante altre cose ancora». E aggiunge: «Tengo più alla città che alla mia carriera politica». Sfumata la candidatura Dipiazza, al livello locale non sono state richieste alternative. Si resta dunque in attesa che il premier snoccioli l’elenco. IPOTESI DI CENTA Ieri sera, posto che le liste saranno comunque rinforzate da qualche parlamentare, si è diffusa la voce di un possibile inserimento nella corsa europea della Di Centa. Amica del presidente, conoscitrice delle lingue e dell’Europa, l’ex campionessa di sci di fondo potrebbe essere l'espressione regionale nella lista nordestina. Un altro coniglio dal cilindro di Berlusconi. LA SINISTRA Si muovono intanto anche altri partiti. Il Pdci, che si unisce in questa occasione con i socialisti di sinistra, ratificherà domenica le candidature ma pare che il numero uno della lista possa essere Oliviero Diliberto. LA PROTESTA La Lega, invece, ieri a Udine ha manifestato con parlamentari, il gruppo regionale e pure il sindaco di Azzano Decimo Enzo Bortolotti, eurocandidato in pectore, all’esterno del Palazzo della Regione, contro «un’Europa impantanata tra la burocrazia farraginosa dei suoi sistemi e le sue norme penalizzanti». Bortolotti ha pure incontro Renzo Tondo in merito alle delibere emanate dal suo Comune finite sotto la lente di alcuni funzionari della Ue. «Ci battiamo per vedere finalmente un soggetto politico capace di gestire una propria impronta – ha spiegato il capogruppo Danilo Narduzzi –, capace di controllare i propri confini e difenderli dalla sempre più sovrastante onda dell’immigrazione clandestina».
FISCO, 4 MILIARDI DI ENTRATE IN MENO. TREMONTI: SIAMO IN QUARESIMA
Il commissario Ue Verheugen: dova trova i soldi per la Opel? Frattini: grave interferenza
di VINDICE LECIS
ROMA Dove trova i soldi la Fiat? Una tagliente osservazione del commissario europeo all’industria sull’interesse verso la Opel fa arrabbiare non solo l’amministratore delegato della casa torinese, Sergio Marchionne, che parla di «sentenza di morte», ma scatena una bufera diplomatica tra Ue e Italia, con la Farnesina che parla di «intollerabile interferenza».La miccia è stata accesa dal commissario tedesco dell’Ue Guenter Verheugen, che ha espresso un giudizio molto critico sull’interesse del Lingotto verso la Opel: «Mi chiedo dove questa società altamente indebitata trovi i mezzi per portare avanti allo stesso tempo due operazioni di questo genere» ha detto riferendosi anche all’operazione Chrysler.Il commissario ha aggiunto di provare «un senso di sorpresa» perché la Fiat, concorrente diretto della Opel, «è un costruttore d’auto europeo che non gode della salute migliore».Marchionne, volato negli Usa per la trattativa Chrysler, ha reagito con sorpresa e fastidio. L’ad della Fiat si è detto «stupito dal tono e dal contenuto» della dichiarazione di Verheugen, osservando che «il suo ruolo a Bruxelles» deve essere «super partes indipendentemente dalla sua nazionalità».Il commissario è anche recidivo: è la seconda volta in due mesi che esprime valutazioni di questo tenore «che non sono costruttive per l’industria dell’auto, affermando a un certo punto che non tutti i costruttori europei sopravviveranno».Per Marchionne invece dell’auspicato «dialogo costruttivo per risolvere i problemi che stanno impattando negativamente sull’industria» arrivano «sentenze di morte scegliendo unilateralmente chi debba sopravvivere».La Fiat ha comunque precisato, anche rispondendo a un invito della Consob, che a parte l’alleanza con Chrysler «non ha al momento predisposto alcuna offerta per l’acquisizione di quote di partecipazione in Opel».Guenter Verheugen ha successivamente precisato che non intendeva «essere scortese» e di «non essere contrario» a un possibile interesse Fiat per la Opel riconoscendo però «che esistono diverse questioni aperte».L’Italia, punta sul vivo, ha reagito con un passo diplomatico della Farnesina sulla Commissione europea. Dopo aver bollato come «intollerabile interferenza» l’uscita del commissario, il ministro Frattini ha sollecitato il presidente della Commissione Barroso «a smentire le improprie dichiarazioni» di Verheugen. Il ministro Tremonti ha ricordato al commissario che «il silenzio è d’oro». Anche la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, parla di «atteggiamento grave» del commissario «che in un certo senso distrugge l’Europa» perchè «rappresenta il caso in cui a dichiarazioni altisonanti contro il protezionismo corrispondono poi atteggiamenti che proteggono le aziende del proprio Paese». Intanto il governo tedesco annuncia di voler chiedere alla Fiat e ai potenziali investitori nella Opel di formulare «progetti con forti prospettive future» e condizionerà a questo il suo possibile appoggio all’ingresso nella controllata di General Motors.La Confindustria tedesca rincara la dose e chiede cautela perché in ballo «ci sono ben 27 mila posti di lavoro» e chiede a gran voce anche maggiore riservatezza per non gestire l’operazione «di fronte al pubblico».Il segretario generale della Fiom-Cgil di Torino, Giorgio Airaudo rivela che nell’incontro di mercoledì al Lingotto «Marchionne ha spiegato che non è in corso una trattativa con l’Opel e che non ci sarà alcuna lettera d’intenti martedì. Marchionne ha detto anche a noi che la priorità è Chrysler». C’è preoccupazione perché l’accorpamento porterà a una ristrutturzione a causa della «sovraccapacità produttiva tra le attuali case europee». E la Fiat conferma che «non ha al momento predisposto alcuna offerta per l’acquisizione di quote in partecipazione in Opel».
INTERROGAZIONE IN REGIONE
Dopo il ”Grande orecchio” nuovo caso investe il Noava: impiegati per posti di blocco
di ROBERTO URIZIO
TRIESTE Non c’è pace per il corpo forestale regionale. Dopo il caso Noava, rilanciato da un’altra interrogazione del senatore Ferruccio Saro, ecco i blocchi stradali svolti proprio dal personale forestale e da quelli del Nucleo operativo nell’occhio del ciclone per la vicenda del ”Grande orecchio”. A sollevare la questione, con un’interrogazione al presidente Tondo e all’assessore Violino, è il consigliere regionale del Partito democratico Enzo Marsilio, assessore alle risorse forestali nella Giunta Illy.Il tutto nasce da un protocollo operativo emanato dal direttore centrale Luca Bulfone il 31 marzo scorso che disponeva l’impiego di personale delle stazioni forestali della provincia di Trieste per operazioni di blocco stradale che si sono tenute nel pomeriggio e nella notte del 31 aprile. «Nel corso di tali operazioni – rivela Marsilio - che hanno visto la partecipazione di personale del Noava, sono stati fermati vari automobilisti italiani e sloveni senza alcun apparente motivo collegato alle funzioni del Corpo forestale e in particolare risulta che, anziché richiedere eventualmente le generalità dei conducenti, sia stata imposta l’esibizione della patente di guida, sconfinando così in funzioni di Codice della strada che non rientrano tra quelle specifiche del corpo forestale».Un episodio senza precedenti, secondo l’esponente del Partito democratico, tanto più che ”espresso chiaramente da una dichiarazione del suo direttore del maggio 2007, il personale forestale non rientra tra le forze di polizia, pur riconoscendo allo stesso la funzione di pubblica sicurezza”. Insomma, Marsilio si rivolge alla Giunta chiedendosi se ”oltre a stravolgere le funzioni del corpo, il dispositivo del direttore centrale sia stato comunque interpretato e applicato in modo esagerato e ingiustificato” e ”se non sia incompatibile una simile attività con le funzioni del corpo forestale regionale, anche a causa della scarsità del personale e delle molteplici funzioni attribuite, ma soprattutto in relazioni a problemi di sicurezza collegati alla scarsa esperienza e formazione”. Intanto Ferruccio Saro non cala l’attenzione sul caso intercettazioni e presenta una quarta interrogazione al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ipotizzando tra l’altro l’esistenza di un altro (o di più di uno) centro per le intercettazioni non autorizzato.«Non è possibile che il caso Noava si chiuda nonostante la relazione dell'Avvocatura della Regione abbia fatto emergere non pochi rilievi illeciti di cui non si è voluto tener conto - afferma Saro - i dati in possesso dell'Avvocatura della Regione Friuli Venezia Giulia sarebbero in contrasto con le determinazioni a cui sarebbe giunta la Direzione regionale dell'agricoltura e delle foreste». Per il senatore del Pdl «sembrerebbero confermate non solo l'esistenza di un Centro per le intercettazioni telefoniche, stabilmente in attività da anni ma, addirittura, pure la presenza di una o più strutture di ascolto che avrebbero operato intercettazioni telefoniche avvalendosi di uomini estranei all'amministrazione regionale». Saro domanda inoltre di conoscere a che punto si trovino le verifiche da parte della Procura sulle intercettazioni e ”se ed in quali modi intenda intervenire al fine di procedere all'accertamento definitivo e senza ulteriori equivoci dell'intera questione accertando l'identità di eventuali funzionari regionali e/o appartenenti al Noava che vi avrebbero fatto parte nonchè gli eventuali oneri di spesa».

COSTITUZIONE SOTTO TIRO
Narrano le cronache che, commentando la lectio magistralis tenuta a Torino dal presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio abbia manifestato l'opinione che quelle parole erano rivolte a lui, e si sia, tuttavia, liberato di ogni preoccupazione al riguardo osservando che la sua popolarità è al massimo. Fatti recenti lasciano intendere che in realtà anche l'on. Berlusconi ha problemi di credibilità politica maggiori di quanti sia disposto ad ammettere. È evidente che le proteste del Pd sul mancato abbinamento di elezioni e referendum al 7 giugno lo hanno paradossalmente messo in difficoltà nei rapporti con gli alleati, paradossalmente poiché di fatto si trattava di iniziativa suscettibile di esiti autolesionistici, ove, con il conseguimento del quorum, la consultazione popolare avesse portato all'introduzione di una legislazione elettorale drasticamente maggioritaria, così favorendo il Pdl a danno dell'opposizione.Però per la prima volta il presidente del Consiglio è stato costretto ad ammettere che il suo è, come tanti della nostra esperienza repubblicana, un governo di coalizione ed egli è quindi chiamato a mediare fra gli interessi anche contrastanti dei suoi partner. Presentate come succulenti appuntamenti gastronomici, le cene di Arcore e Palazzo Grazioli diventavano così altrettanti, e per vero frequenti, vertici di maggioranza, non diversi da quelli tante volte convocati dalle precedenti maggioranze di governo. Un'ammissione che deve essere costata all'on. Berlusconi, se pensiamo che a lui si deve e alla sua "discesa in campo" la pratica di giornalisti e commentatori, ormai consolidata e rispettata anche con il governo Prodi, di definire premier quello che la nostra Costituzione definisce presidente del Consiglio.Le scelte terminologiche hanno sempre secondi fini: prendere a prestito dall'esperienza costituzionale inglese l'espressione ivi usata per definire il capo del governo, nasconde la precisa intenzione di far credere che la posizione del nostro capo del governo è comparabile a quella del premier inglese sia quanto a legittimazione elettorale che a titolarità di poteri di governo e indirizzo. Si potrebbe, però, essere indotti a ritenere che si tratti più di apparenza che di sostanza, se è vero che il cosiddetto premier si lamenta della vigente Costituzione e va invocando una riforma costituzionale che ne rafforzi i poteri. Anche autorevoli politici del centrosinistra, come l'on. Violante, sono, però, disposti oggi a dargli ragione e suggeriscono che il presidente del Consiglio dovrebbe essere qualcosa di più di un primus inter pares. Ma da più parti si introducono peraltro interessanti distinguo. Si riconosce che al cosiddetto premier si dovrebbe attribuire il potere di revocare i ministri, mettendolo al riparo dai troppo invasivi condizionamenti delle partnership di coalizione, ma si nega che sia conveniente riconoscergli il potere di sciogliere il Parlamento. Il ragionamento è corretto.
La sostituzione di un ministro implica un intervento negli equilibri interni di governo, di cui il presidente del Consiglio porta responsabilità, giacché stanno alla base della funzionalità della coalizione che gli consente di governare. Sciogliere il Parlamento significa uscire dallo spazio ristretto degli equilibri di governo per confrontarsi con il sistema politico nel suo complesso coinvolgendo e interessando anche le forze di opposizione.Ed è su questo versante che troviamo spunti interessanti nella lectio del presidente Napolitano, quando sottolinea la necessità che sull'altare della governabilità non vengano sacrificate le ragioni del costituzionalismo liberale. Ne discende l'esigenza di rispettare, ad esempio, l'autorità di una istituzione di garanzia quale la Presidenza della Repubblica. Come sotto tanti altri profili, solo l'intervento moderatore ed equilibratore di questa in occasione dello scioglimento del Parlamento consente a tutte indistintamente le forze politiche di sentirsi garantite e non prevaricate in presenza di un provvedimento traumatico quale è la dissoluzione delle Camere. Che assumerebbe coloriture di parte ove fosse consentito al presidente del Consiglio di usarla per comporre conflitti con l'opposizione nel solo interesse della maggioranza e indipendentemente da una adeguata considerazione delle esigenze di un corretto e paritario funzionamento delle istituzioni costituzionali.Le lamentele dell'odierno esecutivo discendono dalle difficoltà della coalizione, ma peraltro il governo in carica ha già travalicato i limiti del disegno costituzionale dei rapporti fra i poteri di vertice dello Stato anzitutto con la pratica del frequente ricorso alla questione di fiducia, priva di adeguata disciplina nei regolamenti parlamentari e incontrollabile da parte del capo dello Stato: pratica eversiva della normale funzionalità parlamentare e al tempo stesso rivelatrice di inconfessati conflitti e contrasti interni alla maggioranza, che con la fiducia vengono aggirati. Vi è poi la proliferazione dei decreti legge: in materia la partita è ancora aperta, significativi interventi del capo dello Stato ne hanno bloccato l'utilizzo in situazioni di macroscopica incostituzionalità, ma non è chiaro se presidente della Repubblica e presidente della Camera potranno fermarne il dilagare.Giuliano Amato ha osservato che ambedue queste vicende rendono obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento. Si potrebbe osservare che queste non sono il frutto di riforme ma soltanto evenienze di fatto, rotture episodiche della Costituzione, dovute all'attuale maggioranza di governo e al suo leader, che possono anche non rappresentare svolte durature del nostro sistema di governo: da qui la necessità di riforme stabili. Ma non sarebbe un buon argomento per mettere in dubbio i consigli di moderazione e prudenza nel discorso sulle riforme istituzionali. Anzi, proprio la tendenza dell'esecutivo a straripare deve suggerire attenzione nell'accogliere la sua richiesta per nuovi poteri.Sergio Bartole
IMPRESE IN FVG
di GIULIO GARAU
TRIESTE Trentamila aziende in meno in Italia nel primo trimestre dell’anno. È l’acconto della crisi economica che sta facendo sentire i suoi effetti, il raffronto con lo stesso periodo del 2008 offerto da un rapporto di Unioncamere indica una variazione dello 0,5%: dimostra che le chiusure di imprese sono stabili ma stanno frenando le aperture e c’è l’aumento dei fallimenti. Spiccano le cifre che arrivano dal Friuli Venezia Giulia dove proprio i fallimenti nel primo trimestre sembra siano più che raddoppiati. A Gorizia si passa dai 4 del 2008 ai 13 del 2009, a Pordenone dai 14 ai 28 in tre mesi, a Trieste da 8 a 21, stabili solo a Udine dove rimangono 23, come nel 2008. Le aziende sono in crisi di liquidità per il ritardo dei pagamenti, le banche stanno stringendo il credito: il 2009 è solo all’inizio del 2009 con la recessione mondiale, economica e finanziaria, nel pieno della virulenza.Fanno riflettere i dati della mortalità delle imprese del Nordest: di fronte al dato nazionale la situazione è peggiore con un -0,75%, più grave rispetto al Nordovest (-0,42%). Nel dettaglio regionale, mettendo in comparazione le due regioni del Nordest, il Friuli Venezia Giulia chiude il primo trimestre con un -0,83% nel saldo imprese, tra i dati peggiori a livello Italiano (vanno peggio solo Basilicata e Molise rispettivamente con un -0,84 e -0,89%) con una perdita di 921 imprese.Poco distante il Veneto che globalmente perde 3.848 imprese e chiude con un saldo negativo dello 0,76%. Molto evidenti i numeri del bilancio delle imprese in Regione. Nella graduatoria Pordenone è la migliore con uno 0,40% (-115 imprese), seguono Trieste con -0,65% (111 imprese), Gorizia con -0,85% (-97 imprese) e Udine con -1,11% (-598 imprese).Un panorama di chiusure/aperture abbastanza simile a quello del Veneto dove, a parte il numero delle aziende che è molto maggiore, la situazione di crisi è sovrapponibile a quella del Friuli Venezia Giulia. Padova segna un -0,45% (-473 aziende), Vicenza -0,61% (-516 imprese), Verona -0,72% (-721), Rovigo -0,74% (-213), Treviso -0,81% (-756), Belluno -1,09% (-185), Venezia -1,22% (-984 imprese).«Le aziende riducono i margini, limano i costi, rallentano le attività, ma non si arrendono e resistono in condizioni difficilissime nell’attesa di un mutamento del clima di fiducia – sottolinea il presidente di Unioncamere, Andrea Mondello –. L’andamento dei fallimenti segnala però due cose: l’impatto della crisi è ancora contenuto, ma la progressione degli ultimi mesi indica che sta crescendo la pressione sui bilanci delle aziende. È un segnale importante, che deve indurci a tenere alta la guardia soprattutto in questo momento in cui sembrano affacciarsi i primi timidi segnali di alleggerimento delle difficoltà». Forti i timori di Unioncamere sulle difficoltà delle imprese in questo momento, soprattutto le più piccole (Pmi e artigiane), che in un momento delicatissimo sono alle prese anche con la stretta da parte del sistema creditizio.Grande la preoccupazione da parte di Confartigianato in Friuli Venezia Giulia che scruta anche il minimo segno di positività. «Alcuni segnali in controtendenza ci sono, almeno si stabilizzassero i dati in calo – commenta il presidente regionale Graziano Tilatti – se si fermasse la discesa degli indici sarebbe già un dato positivo. Il problema grave è che attualmente c’è un eccesso di offerta del 30% e le aziende devono diminuire la produzione. C’è un freno, forse riprenderanno segnali positivi, ma non sappiamo, nessuno lo sa, se davvero l’effetto della crisi sta finendo o continuerà».Tilatti parla con dolore soprattutto delle aziende metalmeccaniche, quelle più colpite dalla crisi. «E pensare che ci sono anche aziende belle, innovative, che hanno investito in tecnologia – parla con amarezza – realtà che hanno lavorato sempre. Ora i clienti non pagano, sono in difficoltà e le banche, impaurite, stringono il credito. Siamo passati con i pagamenti da 180 a 270 giorni, quasi un anno in ritardo. E le banche che hanno anticipato per la fornitura chiedono indietro i soldi».Il presidente allarga le braccia sgomento: «Non so come finirà – conclude – sono preoccupato perchè molte aziende sono stremate e non so come faranno a rialzarsi. Secondo me non è ancora finita, al termine vedremo in quanto siamo rimasti. Io intanto prego, non mi resta altro di fronte a imprese che lasciano in strada imprenditori, dipendenti e famiglie. Sono stati messi in campo tutti gli sforzi, non resta che l’ultimo: lasciare campo libero a chi vuole intraprendere. Bisogna liberarlo dalla burocrazia e dal peso del fisco e dire alle banche che riprendano la strada del rischio di impresa analizzando i progetti e premiando le idee di business».

Chiuse le scuole nella capitale centroamericana
CITTÀ DEL MESSICO Il governo messicano ha annunciato ieri che sono 16 i casi confermati di persone morte a causa di una nuova variante del virus dell'influenza dai suini, ai quali bisogna aggiungere altri 48 decessi «sospetti» e 934 pazienti che potrebbero avere contratto la malattia. Le autorità della capitale hanno chiuso tutte le scuole per il timore scatenato dall'epidemia. Il ministro della Sanità Josè Angel Cordova Villalobos ha dato le nuove cifre ufficiali sulla malattia dopo una riunione del consiglio dei ministri, sottolineando che si tratta di una nuova varietà del virus, più agressiva di quelle precedentemente conosciute. I casi finora rilevati si concentrano a Città del Messico - la cui area urbana rappresenta una megalopoli di oltre 20 milioni di abitanti - ma sono stati scoperti anche a San Luis Potosì, nella Baja California (Nord) e a Oaxaca (Sud). Cordova ha chiesto ai cittadini di prendere misure di protezione per evitare il contagio: non visitare luoghi affollati, mantenersi lontani da persone con problemi respiratori, lavarsi le mani con acqua e sapone, non condividere i pasti, ventilare le case e gli uffici e pulire gli strumenti di uso condiviso. «Per ora abbiamo la situzione sotto controllo» ha sottolineato il ministro, anche se le cifre date ieri dal governo messicano sono inferiori a quelle diffuse dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che da Ginevra ha informato di circa 70 decessi dovuti alla malattia nel Paese. L’Oms ha espresso ieri preoccupazione anche per i sette casi di influenza suina segnalati negli Stati Uniti. «È preoccupante e molto serio perchè stiamo osservando un’attività insolità dell'influenza in cinque località (Texas, California e tre posti del Messico)» ha detto il portavoce dell'Oms Gregory Hartl, sottolineando che i circa 800 casi sospetti in Messico riguardano persone giovani e in buona salute. L'Oms deve ancora stabilire se vi sia un legame tra la situazione negli Usa e in Messico: «Non siamo disarmati di fronte al nuovo ceppo d’influenza suina H1n1: il virus reagisce all'antivirale Tamiflu».Per ora nessuna allerta è prevista per i viaggiatori. Negli Usa (cinque casi in California e 2 nel Texas) non ci sono decessi. Se fosse confermata la trasmissione del virus dell'influenza suina in Messico da uomo a uomo, ciò indicherebbe un salto di specie compiuto dal virus: potrebbe quindi essere capace d’infettare e propagarsi nell'uomo innescando il rischio di pandemia, come per l’influenza aviaria. È quanto afferma il direttore di Epidemiologia dell'Istituto superiore di sanità (Iss) Stefania Salmaso. «Dalle prime notizie sembrerebbe trattarsi di un virus che si è rimescolato geneticamente nei maiali acquisendo caratteristiche nuove e che lo rendono capace d’infettare e propagarsi nell'uomo» ha specificato.Il virus H1n1 dell'influenza dei suini si sarebbe rimescolato con altri ceppi risultando potenzialmente infettivo per l'uomo. Se i contagi segnalati fossero dunque avvenuti direttamente da uomo a uomo e non da animale a uomo, ciò indicherebbe un'alta pericolosità del virus che, per Salmaso, «potrebbe a questo punto propagarsi facilmente dal momento che la popolazione umana risulterebbe a esso suscettibile. Ma evitiamo allarmismi: in Italia ed Europa non ci sono casi segnalati di influenza da suini nell'uomo. E gli animali sono monitorati».
Triestina a Treviso e basket a Como
di CIRO ESPOSITO
TRIESTE Per la Triestina quella con il Treviso non è l’ultima spiaggia in proiezione play-off soltanto per la matematica (teoricamente oggi alle 18 ci saranno ancora 15 punti in palio). Ma l’occasione per i tre punti è di quelle che non si possono lasciar perdere. Perché se da una parte la Triestina ha perso le ultime due partite e ha smarrito la brillantezza di un mese e mezzo fa, dall’altra il Treviso ha già la testa verso la serie inferiore. Nove punti di ritardo dalla zona play-out sono una voragine e anche la società sta attraversando qualche difficoltà finanziaria. E poi questo pomeriggio al Menti mancheranno tre titolari come Moro, Cordaz e Guigou (tutti squalificati). Ma l’Unione deve pensare a sè stessa. Alla sua fragilità nella testa e nelle gambe. Il tecnico farà rifiatare Antonelli e Gorgone con l’inserimento di Cia e il rientro di Della Rocca davanti. In difesa resta ancora l’enigma Rullo (più probabile che il terzino sinistro resti ancora fermo).Rolando Maran ha speso questi pochi giorni del post-Vicenza per infondere serenità al gruppo. Basterà a raddrizzare la situazione?«In entrambe le partite abbiamo subito dei gol nel finale di tempo. Un episodio negativo che ha alterato il nostro equilibrio. Un gol subito non deve alterare la nostra sicurezza».Questo è il messaggio che ha cercato di far recepire ai giocatori?«Sì. Non credo sia una questione di gambe ma di consapevolezza delle nostre qualità. Tutti assieme abbiamo costruito un grande campionato. Mettiamo da parte i risultati negativi e riprendiamo il cammino con lo stesso entusiasmo».Per questo credete ancora nei play-off?«Siamo in una posizione invidiabile saremmo degli autolesionisti se mollassimo proprio adesso».Ma la prima tappa è vincere a Treviso.«Cercheremo con forza il risultato. Ma per loro questo match rappresenta l’ultima spiaggia».Può essere un vantaggio per la Triestina.«Sì se in campo manterremo il nostro equilibrio».Qualche giocatore assente a Vicenza è di nuovo disponibile. Farà un po’ di turn-over?«Tutti quelli che sono partiti per Treviso possono giocare. Anche Rullo e Della Rocca, ma deciderò all’ultimo momento. Farò rifiatare qualche giocatore».
di LORENZO GATTO
TRIESTE Tutto in una sera tra l’Acegas e l’Ims Como che in quaranta minuti, palla a due alle 20.30 sul parquet del Forum di via Fratelli Rosselli a Pordenone, si giocano una stagione. Chi vince va avanti e sfiderà in semifinale la vincente della sfida tra Trento e Iseo, chi perde sarà costretta a fermare il suo cammino in questi play-off e rinunciare alla rincorsa alla promozione.Partita senza appelli, dunque, che Trieste sarà costretta a giocare in campo neutro ma non senza il sostegno dei suoi tifosi. In quanti raggiungeranno Pordenone? Difficile calcolarlo anche se la presenza di un numero di spettatori oscillante tra le 500 e le mille unità appare una stima sufficientemente attendibile. NUMERI. Le prime due sfide hanno caricato d’attesa la gara-tre di stasera. Nella quale le due squadre dovranno mettere da parte le polemiche arbitrali per concentrarsi solo sulla partita evitando quel gioco duro sul quale Como ha cercato di impostare la gara giocata tra le mura amiche. Sul fronte lariano lo spauracchio è facile da individuare. Luca Matteucci, 45 punti nelle prime due sfide di questi quarti di finale, rappresenta un rebus ancora parzialmente irrisolto per l’Acegas. Il lungo comasco ha siglato con freddezza i liberi del successo in gara uno e tenuto in partita i suoi in gara due mettendo in difficoltà i pari ruolo avversari presto caricatisi di falli.La chiave di lettura migliore, come sottolineato da Massimo Bernardi al termine della gara vinta a Como, può essere la marcatura di Adriano Pigato, un esterno dinamico con gambe e fisico da lungo che può contrastare con efficacia i movimenti spalle a canestro del giocatore lombardo. Nella consapevolezza che l’assenza di Andrea Cigliani e l’utilizzo precauzionalmente ridotto di Stefano Marisi riduce notevolmente le rotazioni a disposizione di Bernardi. E che, complici possibili problemi di falli, affidarsi in certi momento della partita alla zona, può essere un toccasana irrinunciabile.L’altro aspetto della sfida riguarda la marcatura dell’ex canturino Angiolini, affidato nella gara di mercoledì sera alle cure di Cigliani. L’infortunio al ginocchio di Andrea complica naturalmente la vita dell’Acegas che adesso dovrà trovare una soluzione alternativa per limitare le scorribande del giocatore a disdposizione di Tritto.MARISI. La voglia di esserci ha rimesso in pista Stefano che questa sera sarà regolarmente a disposizione di coach Bernardi. Se non dovesse essere indispensabile la sua presenza, così come a Como, non entrerà nelle rotazioni. Starà ai suoi compagni giocare una partita perfetta per permettergli di restare a riposo e presentarsi alle sfide di semifinale nelle migliori condizioni di forma possibile. Per il resto grande attesa per la conferma di un Pigato tornato a recitare da protagonista e per un Gennari che a Como ha fatto sentire tutti i suoi 208 centimetri trovando finalmente la capacità di farsi sentire sotto i tabelloni. Per uscire con la qualificazione alle semifinali da Pordenone servirà comunque una prova maiuscola di tutto il collettivo e magari una migliore percentuale dalla lunetta rispetto alla mira non impeccabile che è stata esibita nella trasferta in terra lariana.BIGLIETTI. Dalle 19 sarà operativa la biglietteria del Forum di Pordenone. Un ordine di posto a dieci euro con riduzione a cinque per chi presenterà l’abbonamento. E chissà se qualcuno tra i triestini, vista le distanze relative, deciderà di concedersi un sabato tutto all’insegna dello sport unendo la trasferta della Triestina a Treviso con la partita serale di basket a Pordenone.
Ma la Farnesina frena: «Non ci sono riscontri»
ROMA Settantadue ore per avviare «trattative concrete», pena l'uccisione degli ostaggi. Sarebbe questo l'ultimatum che i sequestratori del rimorchiatore d’altura «Buccaneer», con a bordo 16 marinai (10 gli italiani), avrebbero lanciato ieri per sbloccare una situazione ferma dall'11 aprile scorso, quando il cargo italiano fu assaltato al largo delle coste somale.Un «aut aut» riferito dai familiari di due degli ostaggi italiani che però non trova conferma alla Farnesina. «Nè l'armatore della nave, nè l'ambasciatore d'Italia presso il governo somalo di transizione, nei loro contatti - fa ha fatto sapere infatti ieri in serata il nostro Ministero degli esteri - hanno riferito che i rapitori si siano espressi in questi termini». Perciò, puntualizza la Farnesina, «non sia ha alcun riscontro del presunto ultimatum». A diffondere la notizia erano stati nel primo pomeriggio le famiglie di Vincenzo Montella e Giovanni Vollaro, due marittimi di Torre del Greco (in provincia di Napoli) che giovedì sera hanno contattato casa riferendo degli ultimi, angosciosi, sviluppi. Prima della nota della Farnesina, era stato però lo stesso armatore del «Buccaneer», la società Micoperi di Ravenna, a smentire l'ipotesi. «Se i pirati avessero lanciato veramente un ultimatum di 72 ore - aveva osservato il general manager dell'azienda Silvio Bartolotti contattato telefonicamente - noi saremmo stati i primi a saperlo».«Ieri mattina ho parlato personalmente con l'ufficiale di bordo e la situazione era tranquilla. Capisco l'inquietudine dei parenti, il momento è delicato ma la Farnesina sta facendo tutto il possibile» ha assicurato sempre ieri Bartolotti, aggiungendo peraltro che tutti gli ostaggi stanno bene e che finora non è giunta alcuna richiesta di riscatto. Le trattative per il rilascio del cargo italiano sarebbero comunque state avviate da tempo, come ha lasciato intendere due giorni fa Franco Frattini. Il titolare della Farnesina, durante il Question time alla Camera di mercoledì, aveva parlato di «canali di comunicazione» con i sequestratori aperti dall'Italia grazie anche alla mediazione del governo somalo e delle autorità del Puntland (regione semi-autonoma nel Nordest della Somalia, dove si trova in questo momento il «Buccaneer»). I contatti in queste ore proseguono: non è un caso che Frattini abbia deciso di spostare nell'area Margherita Boniver, recentemente nominata inviato speciale per le emergenze umanitarie. In questa, come in altre situazioni che vedono connazionali nelle mani di sequestratori, la linea delle autorità italiane resta comunque quella di escludere la possibilità di blitz militari che metterebbero a repentaglio la vita degli ostaggi. Osservatori, supportati da dichiarazioni indirette di governanti somali, fin dall’inizio del sequestro dell’unità italiana (nelle mani dei pirati somali vi sarebbero circa 300 perosne di molte nazionalità) hanno ritenuto che le autorità locali volesse sfruttare il caso del «Buccanner» per chiedere al governo italiano di promuovere un’operazione di assistenza politico-economica e comerciale a vantaggio del martoriato Paese africano, nel caos dopo la fine della dittatura di Siad Barre, spodestato ormai più di 15 anni fa.Mentre Confitarma, il sodalizio degli armatori italiani, si è dichiarato anche di recente contrario a dotarsi di vigilanti privati armati a bordo, dagli Usa arrivano segnali contrari.«Le società di trasporti navali che operano in acque minacciate dai pirati, al largo delle coste africane, dovrebbero prendere seriamente in considerazione di ricorrere a guardie armate a bordo per la loro protezione» ha dichiarato il generale statunitense David Petraeus, l'ufficiale del Pentagono alla guida del Centcom, il Comando Usa da cui dipendono anche le operazioni nella regione del Corno d’Africa. In una deposizione di fronte al Congresso, Petraeus ha sottolineato come il Pentagono abbia già cominciato da qualche tempo a far ricorso a guardie armate di scorta a carichi commerciali destinati ai rifornimenti delle unità militari.Secondo il generale, i cargo commerciali non possono difendersi dagli attacchi di pirati semplicemente facendo ricorso agli idranti antincendio, come fatto finora e devono valutare a fondo la necessità di avere personale armato a bordo. Petraeus ha sottolineato che i pirati stanno alzando il livello della sfida e divengono sempre più coraggiosi e spregiudicati, ed è quindi l'ora per le società di trasporti di fare la loro parte. Dal 3 maggio il comando della Forza navale internazionale Ctf 151 che combatte la pirateria al largo delle coste della Somalia passerà alla Marina militare turca da quella Usa. Lo ha annunciato un portavoce della Quinta flotta Usa di base in Bahrein: «La Turchia diventerà il secondo Paese a comandare il corpo di spedizione anti pirati». La Ctf 151 è stata istituita dagli Usa lo scorso gennaio. Nella stessa area operano altre tre forze navali internazionali: l'Eunavfor Atalanta dell'Ue (con la fregata italiana «Maestrale»), il Gruppo navale permanente dell'Onu e la Forza navale congiunta 150 sotto comando temporaneo della Francia.
Anticipiamo una parte del capitolo ”La caccia a Tito” dal libro ”Il commando di Hitler”, per gentile concessione della Leg.
di FRANZ KUROWSKI
Nella notte di Capodanno del 1944 i difensori croati di Banja Luka, rinforzati da reparti della divisione Brandenburgo, respinsero l’attacco di dieci (!) brigate partigiane, che, secondo la leggenda, erano comandate da Tito in persona. Fu l’inizio di una caccia - l’operazione fu denominata ”Salto del cavallo” - che doveva durare un mese.I Cetnici impiegavano un’intera rete di pattuglie che, accompagnate da squadre radio della Brandenburgo, cercavano le tracce dei partigiani in territorio nemico, mentre il reparto Wildschuetz, composto da elementi del IV Reggimento, effettuava ricognizioni contro il nemico e teneva d’occhio, con informatori permanenti o temporanei i concentramenti di truppe avversari. Assieme al grosso della brigata motorizzata, quelli del Brandenburgo raggiunsero il villaggio di Jaice, fino a poco prima sede del comando partigiano e del generale Tito. Il comando, situato in una fabbrica chimica, era stato abbandonato da poco.Poco dopo giunsero informazioni dal villaggio di Dvar che Tito era nelle vicinanze e nel tentativo di catturarlo e di eliminare la prevista minaccia partigiana la II Armata Corazzata fece intervenire un battaglione paracadutisti delle SS e raggruppò il IV Reggimento Brandenburgo, rinforzato da due battaglioni del I Reggimento, elementi della XCII Brigata Motorizzata ed un gruppo di combattimento speciale della VII Divisione da Montagna Prinz Eugen delle SS.Il comando della II Armata Corazzata lanciò le sue truppe concentricamente verso il punto in cui si sospettava che Tito si trovasse assieme al suo comando, ma il capo partigiano riuscì all’ultimo minuto ad evitare la cattura. I paracadutisti delle SS giunsero a piedi sulla scena a cose fatte; il colpo era fallito, ma l’interrogatorio dei locali accertò che Tito aveva in effetti abitato in quella casa.Tito e il suo comando, che all’epoca comprendeva anche una delegazione militare inglese, si trasferirono a Dvar, un centro di montagna a circa 100 km ad ovest di Jaice, al principio di gennaio. Prima si sistemò in un gruppo di case abbandonate, poi, per motivi di sicurezza si spostò in alcune caverne vicine. Infine, temendo, com’era accaduto davvero, che informatori avessero riferito ai tedeschi dove si era rifugiato, Tito ed il suo comando si trasferirono in una vasta caverna nella zona di Bastasi, a sei chilometri da Dvar. Dopo la scoperta di un altro informatore nell’ambiente vicino a Tito, il 27 marzo 1944, fu chiaro che i tedeschi dovevano essere al corrente del suo nuovo nascondiglio. Incidentalmente l’informatore riuscì a fuggire prima che il plotone d’esecuzione fosse pronto. Ed il comando partigiano fu preso dal panico quando un altro informatore, catturato nella zona, ammise di avere rivelato ai tedeschi il rifugio.La decisione avvenne il 4 maggio: durante un’imboscata ad un plotone di cetnici in servizio di sicurezza, venne trovata una mappa che indicava una serie di capisaldi militari e basi nella zona attorno a Dvar e Bastasi. Allo scopo di schierare i paracadutisti delle SS esattamente ed al momento giusto, il capitano delle SS Skorzeny, dal cui reparto speciale provenivano i paracadutisti, fu convocato in Jugoslavia per preparare e coordinare l’azione. L’operazione cominciò nelle prime ore del 25 maggio 1944. Mezz’ora prima bombardieri tedeschi avevano cominciato a battere la zona, e riuscirono a distruggere il centro radio del comando partigiano. A Tito rimase soltanto una linea telefonica per le comunicazioni. Sulle prime i partigiani a Dvrar e al comando nella caverna presso Bastasi erano rimasti scossi e paralizzati.Erano le 7 precise del mattino quando la prima ondata di paracadutisti del capitano delle SS Rybka scese nella valle di Dvrar e gli alianti da carico furono sganciati sopra Dvrar per iniziare la planata a spirale verso il punto di atterraggio previsto. In città non erano rimasti partigiani; si erano rifugiati nelle montagne quando era cominciato il bombardamento. Tuttavia nella caverna di Tito i cento allievi ufficiali della guardia erano pronti a battersi e furono i primi ad impegnare i paracadutisti tedeschi.Un’ora dopo lo sbarco la città era quasi tutta in mano ai tedeschi e le ultime case furono ripulite a colpi di bombe a mano. Tuttavia la scuola ufficiali, ben protetta dalle rocce e difesa dalle mitragliatrici, resisteva ad ogni attacco. La seconda ondata di paracadutisti prese terra attorno alle 11.50 ed attaccò con molto impeto le posizioni dei partigiani, ma gli allievi ufficiali resistettero con bravura.Nel frattempo quelli del Brandenburgo stavano ancora marciando da Knin, verso Bosniach Grahovo, e parecchie volte furono attaccati da cacciabombardieri nemici, che operavano da un campo avanzato situato sul pianoro roccioso fra le due montagne di Sator e di Jadovnik. Tutti gli assalti del Brandenburgo al campo d’aviazione fallirono di fronte al massiccio fuoco delle difese e i partigiani riuscirono a ripiegare su svariate batterie italiane d’artiglieria media ed una pesante. Quando lo raggiunsero, il campo d’aviazione era vuoto. L’ultimo aereo era decollato con a bordo la missione militare inglese nel tardo pomeriggio del giorno prima.«L’intero reggimento - scrisse il comandante - inseguì i nemici che fuggivano verso Nord senza offrire resistenza perché il loro obiettivo di permettere a Tito di scamparla era stato raggiunto. Tito fuggì, anche se non vestito come avrebbe dovuto, perché trovammo la sua uniforme nuova di maresciallo, assieme ad alcuni documenti che si dimostrarono molto informativi».Inseguiti dalla ”Prinz Eugen”, i partigiani e i difensori del comando si ritirarono a Potocki, a ovest di Jaice, da dove il comando di Tito raggiunse un aeroporto presso Kupreskopolje e da qui decollò per l’isola di Lissa, dove Tito e il suo comando giunsero il 4 giugno 1944. Il tentativo di catturare Tito ed eliminare il suo comando era fallito.
Oggi a Trieste 150 negozi aperti nonostante la festività. E la legge regionale
di MATTEO UNTERWEGER
Oltre 150 fra negozi ed esercizi pubblici rimarranno aperti oggi a Trieste e provincia, nonostante la giornata festiva. Dal centro, con - fra le altre - via Mazzini, via San Spiridione, via Dante e corso Italia, fino a Opicina e, nell’altra direzione, a Muggia: abbigliamento, intimo, profumerie ma non solo. Saranno tante le vetrine pronte ad attrarre clienti, siano triestini o turisti. Una decisione adottata anche dai due centri commerciali cittadini, seppur con qualche eccezione per quello di via Giulia (come si riferisce nell’articolo a fianco).Il mondo del commercio risponde così alle sollecitazioni arrivate dopo la due giorni pasquale, durante la quale molte serrande erano rimaste abbassate, in concomitanza con la presenza in città di un cospicuo numero di turisti. In alcuni casi, centro storico e realtà di superficie inferiore a 400 metri quadrati a parte, sembra quasi una dura risposta all’assessore regionale alle attività produttive, Luca Ciriani, che sulla base della «sua» legge aveva recentemente annunciato sanzioni per quanti decidano di non rispettarla. La norma, deroghe escluse, impone non solo il tetto di 29 aperture domenicali all’anno ma anche di rispettare la chiusura in una serie di giornate festive. Fra le quali, pure il 25 aprile. Una minaccia che, però, Trieste ha già anticipatamente respinto grazie alla nota delibera sullo status di «città d’arte», provvedimento che aggira i limiti della legge Ciriani. «Qui le verifiche di settore le fa la sezione commerciale della Polizia municipale, che si attiene alle disposizioni del Comune. Quindi, anche volendo, Ciriani non avrebbe i mezzi per intervenire», aveva affermato l’assessore comunale allo Sviluppo economico, Paolo Rovis, non più tardi di due settimane fa. Una posizione che, tuttavia, non ha sgomberato completamente il campo da equivoci e dubbi fra gli operatori commerciali triestini, visti gli annunciati ricorsi cui sarebbe pronta la stessa Regione.«La posizione della Confcommercio del Friuli Venezia Giulia - spiega il direttore provinciale, Pietro Farina - è quella di chiedere chiarezza. Anche a Trieste, aspettiamo che Comune e Regione diano indicazioni certe». Una visione univoca da parte dell’associazione di categoria, anche se in un primo momento la richiesta di Confcommercio regionale di un’«applicazione, senza deroghe, dell’impianto normativo vigente, previsto dalla legge Regionale 29 del 2005 e successive modifiche, proprio per garantire un quadro certo a chi opera» sarebbe potuta apparire in contrasto con quella dei colleghi provinciali, fattisi promotori dell’apertura da parte dei propri associati in una giornata festiva come quella del 25 aprile.Il presidente della Confcommercio e numero uno della Camera di commercio di Trieste, Antonio Paoletti, ribadisce la necessità di sgomberare il campo da possibili equivoci: «La norma regionale va rivista in toto - afferma -, concertandola con le categorie. Intanto, quello dato per domani (oggi, ndr) dagli operatori triestini è un bel segnale per la città. In questo senso, bisogna ringraziare soprattutto l’associazione commercianti al dettaglio per il lavoro svolto nell’invitare gli iscritti a tenere la propria attività aperta».«Dobbiamo anche pensare che, quanto al 25 aprile, si tratta di un sabato - è il pensiero del vicepresidente di Confcommercio a livello locale, Franco Rigutti -. Pertanto, decidere di non chiudere mi pare ad un certo punto doveroso». Sul sito della Confcommercio di Trieste (www.confcommerciotrieste.it), si può consultare l’elenco completo dei negozi ed esercizi aperti oggi.
Il Magazzino 18 del Porto Vecchio si trova nella zona più remota dell’antico scalo: le masserizie degli esuli stoccate qui corrispondono a duemila metri cubi
Gli oggetti depositati sono stati suddivisi e selezionati per tipologia: in un’area gli armadi, in un’altra le cucine, in un’altra ancora le vecchie macchine da cucire...
Rimane al momento ancora un’incognita la sorte del materiale che non andrà a far parte della collezione ospitata nel Museo della civiltà istriana, fiumana e dalmata in via di allestimento nel palazzo di via Torino

di PIETRO SPIRITO
Un armadio porta segnato sul retro il nome di Mohoraz Carolina con il numero d’esodo 4330 e la scheda dell’Acomin, l’Agenzia commerciale internazionale incaricata dello smistamento. Accanto, in un scatola piena di polvere e carte, c’è un quaderno di poesie dell’alunno di quarta elementare Fiore Maria Petronio, anno scolastico 1939-1940. Ovunque, qua e là, spuntano fotografie ingiallite, attrezzi, un grande vaso di vetro con dentro quello che non si butta mai: bottoni di forgia varia, fettucce, pezzi di spago, aghi. Intorno, lungo i corridoi bui, nelle vaste sale con i muri scrostati, si accumulano migliaia e migliaia di altri oggetti, suppellettili, quadri, soprammobili, libri, giocattoli. Il tutto in mezzo a duemila metri cubi di armadi, specchi, sedie, cucine, letti, macchine da cucire, utensili di ogni genere.Siamo dentro il magazzino numero 18 del Porto Vecchio, nella zona più lontana di quella città fantasma che è l’antico scalo portuale, dove sono stoccate le masserizie mai ritirate dagli esuli che abbandonarono le terre cedute nel 1947. Nel labirinto dell’enorme deposito il tempo sembra rimettersi in moto ogni volta che il visitatore percorre i passaggi scavati negli ammassi di questa rigatteria della Storia: d’improvviso compaiono i volti, si sentono le storie di migliaia di persone che parlano di abbandono, di fuga, di vite distrutte, case e terre perdute. Gli oggetti hanno sempre un forte potere evocativo, portano l’impronta di chi li ha avuti e usati, e i duemila metri cubi di masserizie del Magazzino 18 sono il coro assordante di un dolore non ancora spento.Le masserizie sono state suddivise e selezionate per tipologia: di qua gli armadi, di là i letti, da una parte tutti gli specchi, dall’altra le cucine. In un’area scura del magazzino sono stipate le sedie: un numero indefinito di sedie accatastate in torri informi fino al soffitto, un intrico di legni testimonianza diretta di tante quotidianità interrotte e simbolo di quel groppo inestricabile di memoria che è stato l’esodo dei trecentomila istriani e dalmati. Non l’esodo più numeroso del Novecento in Europa, ma drammatico come tutti gli esodi e doloroso come un taglio per l’Italia del dopoguerra.Questi beni lasciati indietro, queste masserizie che ancora aspettano qualche fantasma che se le venga a prendere, dal 1988 sono affidate all’Irci, l’Istituto regionale per la Cultura istriano, fiumano, dalmata. Dal 1947 in poi le famiglie in fuga dalle terre cedute alla Jugoslavia lasciarono in deposito in Italia i loro beni, le suppellettili delle case abbandonate, con l’idea di venire un giorno a riprenderle, una volta ricostruita da qualche parte la propria esistenza. Molti si sono ripresi ciò che era loro, molti altri sono spariti nel tunnel di un futuro che forse non immaginavano e non sono mai più tornati. Fino al 1978 in Porto vecchio c’era ancora un ufficio distaccato della Prefettura che aspettava il ritorno dei legittimi proprietari. Dopo, fu solo la storia di un continuo trasferimento da un magazzino all’altro, mentre il tesoro povero di tanta gente si arricchiva di nuove ”cose” in arrivo dai depositi di tutta Italia. Adesso quanto rimane delle masserizie dei profughi partiti più di sessant’anni fa è tutto lì, nel Magazzino 18. Una parte andrà nel nuovo Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata dell’Irci, ma il grosso rimane un’incognita. E rimane il simbolo di un tempo bloccato, come tanti altri a Trieste.«Le masserizie mai ritirate - dice Piero Delbello, direttore dell’Irci - sono uno splendido esempio per testimoniare il dramma istriano poiché nella loro povera e assoluta quotidianità danno la perfetta testimonianza di una società sradicata e cancellata senza possibilità di recupero». «Che poi possano sottendere a una “questione non risolta” è innegabile - continua Delbello - ma se, da un punto di vista culturale, vengono utilizzate in un museo a fotografia del dramma, indubbiamente rispondono a questa domanda incarnando il senso della cultura dell’esilio». Politicamente però, «altre sono le risposte che gli esuli istriani si attendono e alle quali nessun museo può essere delegato: l’attesa per il popolo degli esuli (che non sempre corrisponde all’atteggiamento di chi ne dirige le associazioni di rappresentanza) è il riconoscimento dei diritti usurpati, cioè la restituzione dei beni che si possono restituire da parte dei governi degli stati eredi della Jugoslavia e il definitivo risarcimento da parte del governo italiano per ciò che non si può restituire o che, per ragioni storiche, molte persone non vogliono avere indietro. Questo significa che se non mi restituisci la casa mi risarcisci con il suo valore reale e non con una miseria, magari data 60 anni dopo». In quanto ai nodi della memoria, secondo Delbello «la memoria non è un bene universale che deve essere universalmente condiviso; il fatto che altri abbiano memorie che possano entrare in collisione con la mia è assolutamente normale, e non potrò mai condividere queste memorie ma non mi permetterò mai di modificarle in chi, diversamente da me, le ha; e altrettanto pretendo che si riservi nei miei confronti».«È vero - interviene Marino Vocci, studioso e divulgatore della cultura e delle tradizioni istriane - il Magazzino 18 è come molti altri luoghi di questa nostra città plurale e dai confini mobili, uno dei tanti luoghi di memorie spesso divise e contrapposte, memorie “muscolose” e da brandire, memorie cancellate e spesso accompagnate da un oltraggioso silenzio oppure che hanno subito del tutto in parte un vero e proprio memoricidio, o che hanno portato a vivere e morire di memoria». «Ora - continua Vocci - dovremmo innanzitutto favorire la reciproca conoscenza e recuperare la reciproca fiducia fra i cittadini e le comunità che vivono in questi territori, e questo significa conoscere e poi rispettare e se possibile accettare la memoria e il dolore dell'altro; in tutto ciò un ruolo importante, dovrebbe avere la nostra generazione (personalmente ho fatto tre anni di Campo profughi a Opicina) e quella un po’ più giovane che ha la memoria ma per fortuna non porta sul proprio corpo le ferite del passato: dobbiamo quindi riscoprire tutti, anche attraverso gesti e atti simbolici, una vera etica di "frontiera", cioè abbattare i muri delle separatezze e costruire ponti di reciproca conoscenza e riconoscenza».Secondo Maurizio Tremul, presidente della giunta escutiva dell’Unione italiana in Slovenia e Croazia, «la politica affronta spesso questo problema (esodo, beni abbandonati o meglio confiscati, sequestrati, nazionalizzati, espropriati) con la prospettiva della sua non soluzione definitiva, ma della sua semplice gestione, nel migliore dei casi, o a fini strumentali in chiave elettorale nei casi meramente speculativi. La politica, invece, per sua funzione etica, dovrebbe individuare soluzioni e dare risposte chiare e certe».«Sul piano culturale - continua Tremul - la considerazione di questi fatti merita un metodo professionale e innovativo nell’individuazione delle soluzioni e un approccio umano, di rispetto, nel rapporto con gli esuli, con le loro storie, le loro tragedie, i loro sogni. Un rapporto che deve abbracciare anche coloro che sono rimasti sulle proprie terre e che hanno vissuto un dramma speculare». Come Delbello, anche Tremul non crede «alle memorie condivise – le memorie sono sempre individuali, personali, soggettive: però è necessario capire le ragioni degli altri, i torti fatti e quelli subiti». «E se si riesce a ricordare le proprie ferite con la forza di far nascere i fiori della fraternità da quelle ferite - conclude Tremul -, con lo sguardo che ci proietti oltre la linea dell’orizzonte a superare i muri, principalmente quelli dentro le teste, guardando a ciò che unisce e avere, al contempo, rispetto per le diversità, se sapremo educare e formare le nuove generazioni alla cultura della convivenza, della solidarietà, del rispetto, della fraternità, della libertà, allora forse riusciremo a superare le contrapposizioni».(4 - continua)
Patto con Credit Agricole, aumenta il peso in Intesa SanPaolo
di PIERCARLO FIUMANÒ
TRIESTE Le Generali vogliono uscire «più forti» dalla crisi finanziaria e incassano nel primo trimestre 2008 una raccolta premi di oltre 18 miliardi «stabile» nonostante la tempesta perfetta che ha colpito i mercati. Ieri in assemblea non c’è stato il colpo a sorpresa: il Leone non cerca prede, e per ora esclude aumenti di capitale che potrebbero diluire l’assetto di controllo. Ma se ci saranno buone occasioni il gruppo triestino, che consolida le posizioni nell’Est Europa, India e Cina, è pronto. L’assemblea ha approvato un bilancio segnato dalla crisi finanziaria con il pagamento di un dividendo di 0,75 euro di cui 0,15 in contanti e il resto in azioni. È stata anche la prima assemblea a mercati aperti: il titolo ha chiuso con un balzo del 2,46%.La crisi ha spazzato via anche le tensioni con Algebris che l’anno scorso innescò uno scontro al calor bianco con il presidente Bernheim: l’hedge fund, come ha annunciato ieri Davide Serra, ha venduto tutto il suo 0,5%. Il presidente francese, 84 anni, è pronto ad andarsene (il suo mandato scadrà nel 2010) e non intende ricandidarsi, ma ancora una volta tiene la scena: «Non sono ancora rimbambito. Il prossimo anno avrò 85 anni. Solo chi sta lassù in alto può decidere». Bernheim non accetta l’idea di una carica onoraria: «Un presidente senza poteri? Non lo prendo neppure in considerazione. Io sono al servizio di Generali. Se i soci pensano che io sia di aiuto, vedremo, altrimenti me ne vado». Francesco Gaetano Caltagirone, azionista della compagnia (e protagonista di ripetuti acquisti negli ultimi tempi), ha promosso la governance della compagnia triestina: «Due amministratori delegati a Trieste non sono troppi». E gli acquisti di Generali? «È un investimento in cui credo».Bernheim non sembra avere voglia di ricevere l’ultimo applauso dell’assemblea. Sottolinea il destino impietoso capitato a Citigroup o Lehman Brothers nonostante le banche Usa abbiamo «una governance perfetta». Si compiace quando l’ad Perissinotto gli riconosce doti divinatorie: «Il presidente è stato fra i primi a segnalare la pericolosità della crisi. È stato una guida preziosa». A qualche azionista inquieto, deluso per il dividendo sottile, Bernheim spiega che la crisi è stata causata da «giovani banchieri ricchi privi di immaginazione che hanno investito nei subprime». La tempesta finanziaria «sarà ancora lunga» perchè le banche avranno bisogno di anni per liberarsi dai titoli tossici. Un problema che le Generali non hanno: «Mai avuto titoli tossici. I nostri risultati sono incoraggianti. Senza l’impatto della crisi finanziaria l’utile 2008 (861 milioni) sarebbe stato di circa 3 miliardi». Ma anche il Leone ha sofferto: le svalutazioni nette sui titoli hanno inciso per 3,1 miliardi sul patrimonio netto. La risposta di Trieste è stata rapida. La fusione fra Alleanza e Toro sarà solo una tappa: «Se va bene potrebbe in futuro estendersi anche a Ina e Assitalia», ha detto Bernheim. Perissinotto pensa poi di chiudere anche prima dell'estate la vendita del 50% di Intesa vita.Tocca a Sergio Balbinot, l’ad «globetrotter» artefice dello sbarco in Cina, spiegare in assemblea che le Generali non si fanno piegare dalla crisi del secolo. Nell’Est Europa il gruppo triestino ha un patto di ferro con Ppf in Cechia: «Siamo stati toccati dalla crisi ma meno di altri. La nostra strategia non cambia anche perchè la situazione è diversa in ciascun Paese. Non rinunciamo a crescere ma il nostro obiettivo è la redditività». Negli Stati Uniti le Generali non hanno trovato nulla di «soddisfacente», e non sembrano interessate agli asset di Aig. In Germania il Leone apre le porte a una possibile uscita da Commerzbank: la compagnia triestina è socio con una quota importante (5,6% dopo la fusione con Dresdner e l’intervento dello Stato): «Caduto il rapporto industriale nel 2010 -ha spiegato Balbinot- questa non sarà più una partecipazione strategica ma finanziaria». La Russia potrebbe essere la nuova frontiera dopo che si è sbloccato il dialogo fra Trieste e il magnate russo socio di maggioranza di Ingosstrakh: «Quando era molto ricco non ci rivolgeva neppure la parola. Ora forse sarà lui a venirci a cercare», commenta sornione Bernheim. I soci hanno deciso di non sostituire lo scomparso Vittorio Ripa di Meana in consiglio: bocce ferme fino al 2010. Il cda si riduce a 19 membri.
ALGHE TOSSICHE
POLA Allarme biotossine nei mitili lungo la costa adriatica croata, tanto che il Ministero dell'agricoltura, pesca e sviluppo rurale ha disposto la chiusura di diversi allevamenti, tra cui quelli istriani che si trovano nel Canale di Leme, a Val d'Arsa e a Porto Badò.Il drastico provvedimento è scattato dopo che nei primi mesi dell'anno in diversi punti del litorale è stata riscontrata la fioritura di alcune specie di fitoplancton dalle quali hanno appunto origine le temibili biotossine. Queste possono provocare la paralisi e in casi estremi anche la morte, di chi mangia la carne infetta dei frutti di mare.Gli allevamenti verranno riaperti dopo che risulteranno negativi due controlli fatti in sequenza. Sul suo sito Internet il Ministero dell’agricoltura ha precisato che la situazione è alquanto seria, in quanto oltre alle tossine del gruppo Dsp (Diarhetic Shellfish Poison) che provocano disturbi intestinali, per la prima volta sono apparse le biotossine Psp (Paralytic Shellfish Poison) molto più pericolose in quanto causano la paralisi e anche la morte nel caso di grande consumo di bivalvi infetti.Importante segnalare che le biotossine resistono anche alla cottura dei frutti di mare. Tuttavia è alquanto improbabile che mitili infetti degli allevamenti registrati finiscano a tavola, visto che il controllo delle biotossine è settimanale mentre quello del fitoplancton avviene una volta al mese. Il problema invece sorge con i mitili serviti nei ristoranti di cui non è accertata la provenienza. Il Ministero afferma di non sapere quante cozze vengono messe clandestinamente sul mercato locale.Stando a dati ufficiosi, nei ristoranti e nelle trattorie istriane annualmente verrebbero servite un centinaio di tonnellate di mitili raccolti nei bacini portuali dove l'acqua è inquinata, eludendo controlli sanitari e probabilmente anche quelli tributari.Queste partite di alimenti non passano alcun controllo ed esiste il pericolo che oltre alle biotossine contengano anche metalli pesanti e batteri. Per stroncare il fenomeno, che sicuramente rappresenta una minaccia costante per la salute delle persone con prevedibili ripercussioni anche sul turismo, si annuncia l'intensificazione dei controlli sanitari. Ai cittadini e ai ristoratori viene lanciato l'ulteriore appello ad acquistare i frutti di mare unicamente negli allevamenti regolarmente registrati, che rilascino la necessaria dichiarazione sulla qualità del prodotto. Va precisato che le cozze vengono messe sul mercato anche dai raccoglitori autorizzati che in Istria sono un centinaio.Già da tempo essi sollecitano l'apertura di un laboratorio in Istria che rilasci il certificato sull'idoneità del prodotto. Sembra però che la loro voce non venga ascoltata per cui i campioni di mitili continuano a venire inviati al laboratorio dell'Istituto oceaonografico di Spalato, l’unico del genere in Croazia. (p.r.)

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