domenica 26 aprile 2009

RASSEGNA STAMPA: IL PICCOLO


L’ITALIA RICORDA LA LIBERAZIONE TRA UNITÀ E POLEMICHE. CERIMONIA ANCHE A ONNA
Il premier: «La Resistenza valore fondante. Chiamiamola Festa della Libertà». No del Pd
di ALESSANDRO CECIONI
ONNA Silvio Berlusconi si prende il 25 Aprile, loda il «sacrificio dei nostri partigiani», loda la «saggezza dei costituenti che riuscirono a superare le divisioni di partenza». Cita Togliatti, De Gasperi, Parri, Nenni, Pertini e Terracini, fra loro due comunisti, e di che calibro. Poco prima, parlando della Resistenza, «valore fondante della Repubblica con il Risorgimento», aveva citato «comunisti e democristiani, socialisti e liberali, azionisti e monarchici», tutti uniti nel nome dell’antifascismo. E un discorso che guarda lontano, al Quirinale come approdo per il premier alla scadenza del mandato di Napolitano.Un discorso che sorprende, che spiazza. Fino a commuovere uno dei partigiani della Brigata Majella che, alla fine, mette al collo del premier il fazzoletto tricolore simbolo del gruppo partigiano. Così ora nell’album delle foto c’è anche quella che fino a pochi giorni fa sarebbe sembrata un fotomontaggio, il Berlusconi partigiano.Parole studiate, un testo a più mani, rigorosamente scritto, nel quale avrebbero messo del loro Cicchitto, Ferrara, Bonaiuti, lo stesso Berlusconi.Ma alcune frasi sul rispetto per tutte le vittime, scatenano polemiche. «Pietà anche per chi, credendosi nel giusto, ha combattuto per una causa persa», dice Berlusconi all’Altare della patria prima di partire per l’Abruzzo.Frase che Dario Franceschini, segretario del Partito democratico, non accetta. Anche perché in Parlamento è stata presentata dal Popolo delle libertà una proposta di legge (a firma del socialista Barani) che istituisce un’onorificenza (con vitalizio) e mette sullo stesso piano partigiani, deportati, ex repubblichini.«Non si possono equiparare - dice Franceschini, anche lui in visita a Onna, mezz’ora prima di Berlusconi - il rispetto delle scelte delle persone, la pietà umana, sono una cosa, le vicende politiche un’altra».«Dobbiamo ricordare con rispetto tutti i caduti, anche chi ha combattuto dalla parte sbagliata, sacrificando la propria vita a una causa già persa. Questa non è neutralità o indifferenza - chiarisce Berlusconi arrivato a Onna per ricordare l’eccidio nazifascista dell’11 giugno del 1944 - perché tutti gli italiani stanno con chi ha combattuto per la Patria». «Bene la correzione - gli risponde Franceschini - ma ora per coerenza faccia ritirare dal suo gruppo parlamentare la proposta di legge».«Chi ha combattuto a Salò ha combattuto contro il nostro Paese», dice Massimo D’Alema.Schermaglie in fondo marginali. Berlusconi è già oltre, vuol cambiare il nome al 25 aprile: «Sono maturi i tempi perché la Festa della Liberazione diventi Festa di Libertà e tolga quel carattere di contrapposizione che la cultura rivoluzionaria, lo dico senza polemica, gli ha dato».«Il nome non si tocca», replicherà Franceschini. Ma è sempre il presidente del Consiglio a condurre i giochi: «Compito di tutti è costruire finalmente un sentimento nazionale unitario. Dobbiamo farlo tutti insieme, a prescindere dalle appartenenze politiche, per un nuovo inizio della democrazia repubblicana che porti il bene e l’interesse di tutti».Berlusconi evoca lo spirito dell’antifascismo come collante, ma se là il nemico era ben individuato, oggi non è chiaro quale sia.

DIRETTIVA CHE RIVOLUZIONERÀ IL SETTORE
Possibile curarsi negli ospedali austriaci e sloveni. «Grandi vantaggi per il Fvg»
di MARTINA MILIA
TRIESTE Curarsi in un ospedale di Parigi o di Madrid sarà possibile anche per chi non ha grandi disponibilità economiche. A pagare sarà lo stato d’origine del cittadino, o la Regione nel caso di un sistema sanitario autonomo. Come? Con l’adozione della proposta di direttiva europea sull’assistenza sanitaria transfrontaliera, in discussione al Parlamento europeo. In prima lettura la proposta è passata con il voto favorevole dei popolari e dei liberali e con l’astensione dei socialisti. Il prossimo esame spetterà al Consiglio europeo. La proposta sarà illustrata domani pomeriggio a Trieste in un convegno organizzato dal gruppo consigliare dell’Udc, al quale parteciperanno tre referenti regionali (il capogruppo consigliare del partito, Edoardo Sasco, il presidente della terza commissione, Giorgio Venier Roman e l’assessore regionale alla salute Vladimir Kosic, al quale sono affidate le conclusioni) e l’europarlamentare della Circoscrizione Italia Nord Est, Iles Braghetto, nonché relatore del testo in commissione Affari sociali. «Il principio da cui parte la proposta è semplice – spiega Braghetto – e prende le mosse dalle sentenze della Corte giustizia europea che ribadiscono come i diritti di un cittadino europeo valgono in qualsiasi paese dell’unione. Per questa ragione la proposta sancisce che un cittadino europeo possa curarsi in qualunque stato dell’Unione ricevendo lo stesso trattamento e quindi avendo gli stessi diritti che avrebbe nel suo paese».La base giuridica della direttiva non è il diritto alla salute – «che fa capo ai governi nazionali» ricorda Braghetto – bensì «la libera circolazione dei servizi». In prospettiva - «ci vorranno alcuni anni perché i paesi si adeguino al sistema, un po’ quello che è avvenuto tra le regioni italiane» -, un residente del Friuli Venezia Giulia potrà andare a curarsi dove vorrà e allo stesso tempo le strutture della regione accoglieranno pazienti da altri paesi. «Nel caso della vostra regione, al confine con Slovenia e Austria, è facile pensare a una migrazione frequente – analizza Braghetto - ed è anche auspicabile che si arrivi poi ad intese sulla gestione delle strutture ospedaliere. Penso all’ospedale di Gorizia che, pur in territorio italiano, è naturale riferimento anche per gli sloveni».Gli aspetti positivi della norma, secondo l’europarlamentare sono tre. «Il primo – spiega - riguarda la libertà del paziente di scegliere dove curarsi: in base ai livelli delle prestazioni, magari alle tecnologie di una struttura, ma anche alle liste d’attesa. È chiaro che, laddove le liste saranno più contenute, i pazienti saranno più motivati a spostarsi». Questo genera il secondo effetto positivo: «La concorrenza incentiverà le Regioni a puntare al massimo di efficacia e efficienza per evitare la migrazione dei pazienti. La direttiva parla anche della costituzione di reti di riferimento europee tra pool di ospedali che possono produrre ricerca e cure adeguate».In questo il Friuli Venezia Giulia, proprio per la sua posizione strategica e la presenza di ben due Irccs (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) – il Burlo e il Cro di Aviano – ha delle carte da giocarsi. Terzo vantaggio: l’integrazione fra paesi europei nel servizio alla persona, «a condizione che venga creata una rete informativa adeguata, usando internet, che consenta al cittadino di orientarsi per sapere dove si trova il miglior specialista in una disciplina piuttosto che in un’altra».Non mancano, però, le controindicazioni. La prima è la spesa che alcuni paesi rischiano di sostenere di fronte a una migrazione massiccia di pazienti. «Per questo è stata introdotta – specifica l’europarlamentare – la possibilità che il paese di provenienza del paziente rilasci un’autorizzazione preventiva, per le cure ospedaliere, qualora ci sia un eccesso. Secondo lo studio condotto preliminarmente alla proposta, però, questo non dovrebbe verificarsi. Si calcola che la direttiva genererà una mobilità del 3–4% dei cittadini europei». Sull’altra faccia della medaglia c’è anche il rischio di un’eccessiva burocrazia: «anche su questo l’impegno della direttiva e poi degli stati membri dovrà essere forte».

L’OPINIONE
Per il primo anno, dopo un quindicennio, il centrodestra ha partecipato attivamente alla giornata del 25 Aprile e per la prima volta riconosce «il valore fondante» della Resistenza per la nostra democrazia assieme al Risorgimento che fece l’unità d’Italia.Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha aperto in questi ultimi anni il percorso odierno, a partire, proprio lui ex missino, dalla definizione del fascismo quale «male assoluto».
Silvio Berlusconi - probabilmente anche per accreditarsi come possibile futuro presidente della Repubblica - ha deciso di celebrare pubblicamente la Liberazione rinunciando alla equidistanza fra partigiani e combattenti di Salò sia pure nel rispetto per quanti caddero battendosi «in buona fede» contro coloro che stavano «dalla parte giusta».Ha soltanto accennato a «errori e colpe» commessi anche dai partigiani, e alla «cultura rivoluzionaria», senza però nominare i comunisti suo bersaglio polemico costante. Ha infine proposto - e qui lo schieramento politico si è di nuovo diviso - che la Festa della Liberazione diventi Festa della Libertà. Dizione che non può piacere a quanti credono al valore storico profondo di quella Liberazione: dal nazifascismo e da un ventennio di sopraffazioni.Ricordiamolo: 28.000 anni di carcere o confino irrogati a oltre 5.000 condannati politici, centinaia di esuli, abolizione delle elezioni, leggi razziali, espulsione da ogni ruolo pubblico dei non tesserati al Pnf, violenza e morte inflitte a vari leader antifascisti.Certamente ha dato molti frutti, nel senso di una più solida unità nazionale nel segno della democrazia ricreata nel 1945, il lavoro politico-culturale, la paziente semina operata dai tre ultimi presidenti Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Da quest’ultimo in particolare che, proprio alla vigilia, aveva ammonito chi continua a denigrare la Resistenza.Lo stesso ministro della Difesa, Ignazio La Russa, il quale pochi giorni fa indugiava nel distinguo fra partigiani "buoni" e "cattivi", si è maggiormente allineato. A Berlusconi e al Pdl resta un passo fondamentale da compiere: ritirare il disegno di legge che vuole equiparare i combattenti di Salò ai partigiani, ai militari del Cln e ai 600.000 soldati e ai 30.000 ufficiali italiani i quali, nei campi di concentramento nazisti, soffrirono o si spensero per aver rifiutato l’adesione alla Repubblica mussoliniana alleata della Germania hitleriana.Un conto è avere «rispetto e pietà» per i cosiddetti ragazzi di Salò. Altro equipararli nella storia a quanti si batterono per libertà, democrazia, giustizia sociale.Vittorio Emiliani


LA VIA DEDICATA A TITO
A proposito dell'intitolazione di una via di Lubiana al maresciallo Tito, ho invano aspettato una tempestiva reazione innanzitutto e soprattutto da parte di quei gruppi che giustamente hanno vivacemente protestato e si sono pubblicamente indignati per la decisione della giunta comunale di Trieste di intitolare una via a Mario Granbassi. Tale evidente parzialità oltretutto indebolisce e rende meno credibile la reazione degli antifascisti, rende meno efficace la loro linea di condotta.
Nessuno ovviamente mette in discussione il diritto del Consiglio comunale di Lubiana di decidere a chi intitolare vie, ma nessuno può togliere a noi, di Trieste, il diritto - e il dovere - di esprimere netta contrarietà a una decisione che ci riporta in un passato da cui per fortuna dovremmo essere tutti usciti. Non si può dimenticare che Tito è stato il capo di quel regime comunista che immediatamente dopo la guerra ha attuato una dura repressione politica e ideologica, ha chiuso le chiese, le sedi di partito, ha tolto la libertà di parola, ha diffuso in tutti i punti della società l'Ozna, quel servizio segreto di informatori che aveva il compito di controllare uomini e gruppi. E' il regime che poi ha creato Goli Otok, per ricordare solo uno dei campi di concentramento istituiti. Il regime che ha chiuso un'infinità di scuole di lingua italiana, per tutti gli anni '50 e dopo. Potrei continuare nell'elenco, ma ne ho semplicemente accennato una parte per ribadire che ogni nostalgia per i totalitarismi che hanno insanguinato le nostre terre - e Tito aveva le mani insanguinate - è fuori luogo, ci riporta indietro e danneggia quella efficace integrazione che la democrazia ha finalmente reso possibile in tutte queste nostre regioni. Un'adesione coerente alle istituzioni comunitarie dell'Ue non può passare attraverso la celebrazione nostalgica delle dittature e dei dittatori che hanno reso terribile il Novecento europeo e giuliano. Stelio Spadaro * Pd Trieste

I RITI A TRIESTE
di SILVIO MARANZANA
Emma Tull, 84 anni di Caresana, staffetta partigiana, Jolanda Marchesich, 85 anni di Pinguente collaboratrice della Resistenza. Sono state loro, deportate ad Auschwitz e scampate miracolosamente allo sterminio, le protagoniste della Festa della Liberazione a Trieste. La Risiera di San Sabba, unico lager nazista dotato di forno crematorio esistente in Italia, è stata affollata ieri da oltre quattromila persone (più altri mille visitatori nel pomeriggio) ma lo stesso sindaco Roberto Dipiazza ha voluto ringraziare in particolare le due anziane donne che portavano il triste fazzoletto biancoazzurro al collo. «Imprigionate e deportate ad Auschwitz per il loro impegno antifascista - ha detto il sindaco - sono oggi fra noi per dimostrare che un’idealità di libertà e di democrazia è una forza morale che dura tutta la vita». Con un gesto particolarmente significativo le ex deportate hanno poi posto sotto la lapide che ricorda il sito del forno crematorio i mazzi di fiori che avevano loro porto due bambini dopo aver letto alcune righe del diario della loro sofferenza.L’intera regione è stata rappresentata ai massimi livelli dal presidente Renzo Tondo, molti gli esponenti di Forza Italia intervenuti e anche il deputato della Lega, Massimiliano Fedriga. Nessuno invece dei principali rappresentanti di provenienza An, partito di governo in Italia, in Regione e a Trieste, che non risulta nemmeno abbiano festeggiato la Liberazione in altre cerimonie ufficiali, sebbene lo stesso Ignazio La Russa abbia parlato del 25 Aprile come «festa da tutti condivisa». L’antifascismo di destra a Trieste non è ancora nato. È rimasto semiinascoltato dunque il passaggio del discorso in cui Dipiazza ha parlato di «una Trieste dove la stragrande maggioranza dei cittadini sta cercando di mettere le basi per un futuro in cui i luoghi della memoria non siano più steccati che dividano, ma diventino anno dopo anno occasioni di riflessione condivisa che uniscano. Non è più giustificabile - ha aggiunto - partecipare alle commemorazioni animati da uno spirito di vendetta». Non aiuta in questa direzione dunque nemmeno il tradizionale tricolore jugoslavo con la stella rossa, emblema di un altro regime a propria volta colpevole di migliaia di morti, che puntalmente spunta in Risiera in questa occasione impugnato da un esponente del coro partigiano Pinko Tomazic.Ma a dispetto di quanto era avvenuto negli ultimi anni fin dalla volta in cui il programma della manifestazione era stato tracciato dal’ex presidente della Provincia Fabio Scoccimarro, il coro Tomazic dapprima estromesso e poi relegato a esibirsi a cerimonia conclusa, ieri è rientrato nel programma ufficiale e ha potuto eseguire dapprima due brani in sloveno e poi ”Bella ciao”, calorosamente applaudito da spettatori e autorità. Tondo in serata ha detto di aver apprezzato ”Bella ciao”, ma ha lamentato la mancata esecuzione dell’Inno di Mameli.Secondo Dipiazza per arrivare a una Trieste coesa manca veramente poco. «Quello che manca - ha affermato - è il riconoscere per il peso che effettivamente hanno le provocazioni di una sparuta minoranza che opera in maniera trasversale: azioni compiute da chi oggi è ideologicamente sbandato perché politicamente fallito. Per questo dobbiamo avere la forza di isolare e di non amplificare quei deboli, anche se udibili richiami a un clima di intolleranza e di diffidenza».Secondo quanto ha affermato il sindaco di San Dorligo-Dolina, Fulvia Premolin, bisogna distinguere chi ha collaborato con il regime da chi ha combattuto per la libertà perché il revisionismo è sempre pronto a colpire. «Anche qualche esponente di destra - ha affermato - oggi ha ammesso che chi si riconosce nei valori di libertà è conseguentemente antifascista. Quando questa asserzione diverrà patrimonio di tutti avremmo finalmente raggiunto la pacificazione».Assente la Comunità ebraica per i concomitanti impegni liturgici legati al sabato, hanno partecipato rappresentanti e labari delle associazioni dei deportati e dei perseguitati politici antifascisti, delle associazioni partigiane, dei Volontari della libertà, dei Caduti, delle associazioni combattentistiche e d’arma, dei sindacati, dell’Unione degli studenti. Nel corso della deposizione delle corone d’alloro, ha reso gli onori ai Caduti un picchetto del Piemonte cavalleria. In chiusura i riti religiosi officiati per la comunità cattolica dal vescovo Eugenio Ravignani, per quella luterana dal pastore Dieter Kampen, per quella serbo-ortodossa dal parroco Rasko Radovic e per quella greco-ortodossa dall’archimandrita Gregorios Miliaris.

VERSO LE ELEZIONI
Sotto il partito, niente. Le candidature che stanno maturando per le europee e le amministrative di giugno mettono impietosamente a nudo il vuoto che si è creato nei luoghi della politica, dietro le targhe affisse sui portoni: per i modi e le logiche che le ispirano, prima ancora che per i nomi. E il Nordest non solo non si sottrae a questa deriva, ma anzi ne rappresenta il caso più vistoso. Lo è con il Pd, che riesce ad esprimere il capolista più infelice possibile: perché Luigi Berlinguer non è un leader; perché è l'antitesi del rinnovamento; perché dalla scuola elementare all'università è inviso a quella categoria degli insegnanti che rappresenta uno dei serbatoi residuali di voto del centrosinistra. E dove il partito vuole dare un segno di cambiamento legato ai giovani, si affida a una quasi quarantenne come Debora Serracchiani, la cui popolarità è dovuta all'aver fatto un bel discorso a un convegno, in cui tra l'altro se l'è presa con il partito che la candida. Ma neppure il Pdl manda segnali meno sconfortanti: perché s'impegola per mesi in una mediocre partita a scacchi in cui la logica delle compensazioni tra componenti interne e tra cariche prevale nettamente sulla valutazione della qualità delle persone e del loro legame col territorio. E perché alla fine, come da statuto del partito (articoli 15 e 25), è il Capo che decide tutto (vedi il caso friulano delle europee, non il solo); a momenti pure come si deve vestire il candidato.Hanno fatto in fretta a dimenticarsi, tutti quanti, delle lucide analisi e dei serrati mea culpa di pochi mesi fa: quando, all'indomani delle politiche, di fronte ai risultati a Nord del Po (una mazzata pure per il Pdl), di colpo scoprirono l'importanza del territorio, anzi la necessità inderogabile del suo primato. Quando ci sono posti in palio, le vecchie logiche tornano a galla; e non c'è da stupirsene, perché sono cambiati i nomi dei partiti ma a decidere alla fine sono gli stessi che c'erano prima: 20, 30, 40 anni fa... I criteri non cambiano: un tot di anziani in servizio permanente, una spruzzata di giovani peraltro rigorosamente cooptati, fedeltà ai sempiterni leader. Su tutto, cipria in quantità più o meno industriali, specie in un Pdl che dei volti telegenici fa un criterio-cardine (le "Berlusconi babes"); perché quel che conta è acchiappare mazzi di voti per potersi poi contare nell'infinita partita a briscola della politica italiana, in cui peraltro non manca il contentino neppure per i due di coppe.
Ma l'ennesimo pateracchio delle candidature mette anche a nudo l'inconsistenza e la debolezza delle classi dirigenti locali, incapaci sia di selezionare nomi di spessore che di proporli/imporli ai vertici nazionali: il "no" all'Europa di due figure di peso come il veneto Flavio Zanonato (Pd) e il triestino Roberto Dipiazza (Pdl), entrambi sindaci, ha aperto la finestra sul vuoto pneumatico che sta dietro. Pochi, magari, ma dei leader esistono; sono le squadre che mancano. E quando comunque i capi decidono la selezione da Roma o da Milano, gli esclusi in periferia insorgono, minacciando il consueto florilegio di liste civiche: sintomo di personalismi esasperati, certo; ma anche dell'incapacità dei vertici di garantire all'interno dei rispettivi partiti un collante identitario.Così, alla fine, non resta che rigirarsi mestamente tra le mani una domanda posta nel suo ultimo libro da Marc Lazar, politologo francese che ci conosce bene: e se il nuovo che avanza nella politica italiana fosse solo il vecchio che sopravvive a se stesso? Con il sospetto che l'unica cosa sbagliata, in quel giudizio, sia il punto interrogativo.Francesco Jori
Calano le assenze negli enti pubblici, ma l’Osservatorio fa il record italiano: -74,8%
di PIERO RAUBER
La cura Brunetta continua a mietere guarigioni. A Trieste più che altrove, con picchi del 74,8% e del 50,8% tra i dipendenti di due istituti di ricerca come Ogs e Area, e del 46,2% nell’Azienda ospedaliera. Gli ultimi bollettini pubblicati sul sito del Ministero della Pubblica amministrazione - dove vengono calcolate le variazioni delle assenze per malattia registrate nel mese scorso rispetto al marzo del 2008 - dicono che soltanto in un ente di casa nostra non si sono riscontrati recuperi di presenze superiori alla media nazionale per ogni singola tipologia di amministrazione. È il caso dell’Azienda sanitaria numero 1, dove i giorni di astensione dal lavoro per motivi di salute, se rapportati a 12 mesi fa, sono diminuiti del 39,8%. Tanto quanto il trend di tutte le Ass d’Italia. Qui il primato regionale spetta all’Azienda sanitaria Alto Friuli con un -41,9%. Un primato che Trieste si ripiglia guardando alle percentuali delle aziende ospedaliere: nella nostra, a marzo, il calo delle assenze per malattia è stato per l’appunto del 46,2%, oltre sette punti percentuali più della media tricolore delle stesse aziende ospedaliere (-38,9%). Un dato, questo, che nella lista degli enti triestini presenti sul sito del Ministero finisce in coda solo a quelli del Consorzio di Area Science Park (-50,8%) e dell’Ogs: l’Osservatorio geofisico sperimentale, in particolare, con un -74,8% (-65,1% il mese precedente) è l’istituto di ricerca dove si è verificato il crollo delle astensioni per cause di salute più robusto di tutta la penisola.Oltre la media nazionale, seppur di poco, si confermano i recuperi di produttività in Comune e Provincia. A Palazzo Galatti, tra marzo 2008 e il mese scorso c’è stato un 41,2% di ammalati in meno (-49,7% tra febbraio 2008 e febbraio 2009), a fronte di un trend fra tutte le ammministrazioni provinciali d’Italia pari a -39,9%. E in questo caso Trieste cede il record regionale a Gorizia: -44,5%. Stessa graduatoria, con il capoluogo isontino davanti, anche per le assenze tra i dipendenti comunali. Nel Municipio, sotto il colle di San Giusto, a marzo la proiezione annuale segna un -32,1% (era -34,9% a febbraio), contro una media di tutte le amministrazioni comunali dello Stivale che si attesta a un -30,7%. A Gorizia la percentuale arriva invece al -38,2%.Sotto la linea della normalità, in confronto a quella della «categoria» di pubblica amministrazione calcolata a livello nazionale, questo mese galleggia soltanto la Regione Friuli Venezia Giulia, dove la variazione delle assenze per malattia scende a -31,8% a fronte del -35,6% che rappresenta la media delle regioni d’Italia e del -34% che coincide con il trend del solo Nord-Est. Si tratta, nel caso della Regione, di un rientro nei crismi dopo il -43,1% rilevato tra febbraio 2008 e febbraio 2009, superiore al -39,5% tricolore e al -40,2% nordestino.Tutte le stime dell’ultimo mese - come si precisa nello stesso sito ministeriale - sono state accuratamente pulite in base a rigidi parametri statistici dal cosiddetto «effetto calendario», tenendo in considerazione cioè il fatto che nel marzo di quest’anno le giornate lavorative sono state maggiori di quelle dell’anno passato, in quanto nel 2008 la Pasqua è caduta proprio a marzo.
Basket serie B2
dall’inviato
MATTEO CONTESSA
PORDENONE Un’incredibile Acegas elimina Como e va in semifinale play-off, vincendo la bella per 82-70. Ma ha fatto correre sudori freddi ai circa 700 che l’hanno seguita al Forum di Pordenone. Perché dopo aver virtualmente chiuso l’incontro a proprio favore quando mancavano 8’ alla fine, si è fermata completamente, subendo il colpo di coda di Como che, come mercoledì scorso, ha gettato le ultime residue energie per tentare di riaprire l’incontro.E c’è riuscita in pieno, di fronte a un’Acegas paralizzata dalla stanchezza e menomata dalle condizioni fisiche precarie di alcuni giocatori: in 4 minuti ha ricucito il -17 che accusava e ha avuto in mano anche la palla del pareggio clamoroso. Ma lì si è fermata, i successivi 3 errori al tiro hanno permesso a Trieste di scuotersi e segnare quei 5 punti che hanno scavato il fossato. A quel punto ha perso la testa, si è fatta espellere Meroni e un dirigente mandando i biancorossi 8 volte di seguito in lunetta a cronometro fermo, a meno di un minuto dalla fine. Un’Acegas multiforme. Attenta all’inizio, ha preso il largo con due minuti di fuoco nel secondo quarto, ha gestito il vantaggio nel terzo, facendo sfiancare a vuoto la squadra di Tritto e sembrava aver ucciso definitivamente il match all’inizio dell’ultimo, quando era volata sul +17 dopo 2 minuti. Poi il blackout da paura. Comunque è in semifinale, adesso ha una settimana per tirare il fiato prima di affrontare la vincente di Trento-Iseo che giocano stasera. Nelle tre sfide ha mostrato di essere superiore ai lombardi, ma preoccupa questa condizione generale che genera discontinuità di rendimento nell’arco della stessa gara. Primo quarto in grande equilibrio, che la giocata da 4 punti di Bocchini (tripla e libero aggiuntivo, 9-6 dopo 4’) sembra poter rompere. Ma non è così, perché Como rende subito la pariglia. Anche ieri sera Angiolini è francobollato (prima Marisi, poi Lenardon) e così i lariani iniziano a poggiare il loro gioco esclusivamente su Matteucci, che però neppure lui stasera è quello di tre giorni fa. Con la schiacciata di Gennari tutto solo in area l’Acegas chiude sul 24-20 il primo quarto. Trieste ha preso le misure agli avversari, che per limitarli sono costretti a caricarsi di falli. E quando sono costretti a mollare la presa, subito Trieste scava il fossato: con un break di 8-0 crea il primo allungo (34-26) a metà parziale, poi Spanghero e Benevelli incrementano e si arriva sul 42-29 all’8’01”. È il momento migliore di Trieste, fatto di difesa e contropiede, si va al riposo sul 44-33, ma la partita è ancora apertissima.Como inizia a dare segni di cedimento fisico e perde quasi completamente la via del canestro. Ma l’Acegas, che potrebbe controllare comodamente l’incontro, inizia inspiegabilmente a forzare le conclusioni dalla lunga distanza, sbagliando sempre. Il parziale finisce sul 13-11, che nel totale fa 57-44 per i padroni di casa. Il bel canestro di Gennari dopo il rimbalzo catturato e il tiro libero aggiuntivo anch’esso segnato, fanno volare Trieste a +17 (64-47) dopo 2 minuti di gioco. Finita? Neanche per sogno, perché una delle caratteristiche dei lombardi è l’accelerazione finale, che in campionato le ha permesso spesso di vincere in rimonta. E non avendo più nulla da perdere, gettano tutte le ultime energie con esito devastante: 17-3 e a 4’ dalla fine siamo sul 67-64, con l’inerzia della partita tutta dalla parte degli ospiti.Como arriva fino a -2 (70-68 a 2’ dalla fine), ma poi si blocca, Trieste ha una reazione d’orgoglio, intensifica la difesa, mette a segno il 5-0 che le dà il vantaggio decisivo. Meroni commette fallo intenzionale su Spanghero, protesta e si fa espellere, stessa sorte per il dirigente accompagnatore lombardo. Trieste va 8 volte consecutivamente in lunetta e chiude la partita con un sospirone di sollievo.

Crisi a Trieste
di LAURA TONERO
Li hanno definiti "i nuovi poveri". In alcuni casi sono ridotti persino a bussare alla porta della Caritas, a chiedere un aiuto nelle parrocchie o nelle associazioni di volontariato che aderiscono al Banco Alimentare.I papà separati attualmente nella provincia di Trieste sono 3.240. Si stima che un terzo di loro viva in condizioni economiche difficili, in taluni casi molto precarie. «Ottantuno delle 809 persone che nel 2008 si sono rivolte al nostro centro d'ascolto erano papà separati in situazioni di difficoltà economica o di indigenza», testimonia Mario Ravalico, direttore della Caritas di Trieste.«La nostra realtà registra quotidianamente queste emergenze - assicura Paolo Falconer, presidente regionale dell'associazione Papà separati - ed è per questo che proponiamo una modifica alla legge del 2006 sull'affido condiviso affinché venga introdotto un mediatore familiare: una figura che vigili sulla situazione economica di entrambi i genitori e che assicuri anche ai padri il diritto di stare con i figli, tanto quanto alle madri».Stipendi risicati, lavoro precario o assente. E una vita da affrontare, giorno per giorno. Un uomo senza una solida situazione economica, al momento di separarsi deve diventare un perfetto "equilibrista": se deve lasciare la casa coniugale si ritrova con un affitto da pagare e una quota da destinare al mantenimento dei figli. Un dovere che non sempre peraltro viene rispettato, neppure dai padri più facoltosi generando di fatto un impoverimento generale della famiglia.Dopo la separazione, per le coppie economicamente deboli la povertà diventa dunque una sorta di effetto collaterale. Per tutti i componenti, figli inclusi. E se un padre si ritrova a vivere in un buco, in un monolocale arredato con due sedie, un letto singolo e un fornello, come fa ad accogliere lì i suoi figli, a passarci del tempo insieme quando non ha neppure i soldi per sedersi con loro in una gelateria? Nelle grandi città padri separati vengono accolti persino nei dormitori pubblici, mangiano alle mense per i poveri, dormono sulle panchine nella stazione ferroviaria. A Bolzano la scorsa estate l'amministrazione provinciale ha realizzato una casa albergo per papà separati con tanto di sale giochi dove far passare del tempo con i figli. Ma cosa genera nei bambini e nelle bambine questa centellinata, a volte assente, relazione con la figura paterna? «Per l'uomo con il padre c'è un'identificazione di tipo antagonistico indispensabile nella formazione della personalità, - precisa Filippo Nicolini, psicologo e sessuologo - mentre la donna ha come prototipo del maschio proprio la figura paterna: la sua assenza genera in lei un deterioramento della figura maschile e difficoltà di rapporto con i suoi futuri partner». Nei padri separati spesso nasce la paura di dover riconquistare di volta in volta l'affetto dei figli: ogni incontro diventa una sorta di prova da superare. Per timore di compromettere i rapporti vengono meno anche i confronti, gli scontri: «Contraddicendo i figli temono di venir allontanati, - avverte Nicolini - invece anche lo scontro è doveroso e aiuta i ragazzi a costruirsi una personalità».

Calcio serie B
dall’inviato
CIRO ESPOSITO
TREVISO Un Tenni semideserto saluta una delle ultime apparizioni casalinghe in serie B e i sogni della Triestina. Solo tre stagioni fa i beniamini della Marca se la vedevano con Milan, Inter ecc. Ora, oltre all’ultimo posto in classifica con i play-out praticamente irraggiungibili, la società biancoceleste rischia di sparire per un buco finanziario da 15 milioni di euro. Ma anche questo Treviso che ha fatto il suo ma nulla di più in questo momento vale più della Triestina. Trova un gol dopo poco più di dieci minuti e la partita non si schioda più. Anche se i trevigiani avrebbero potuto segnare altri gol. «Roba da Terza categoria» - dice un distinto signore trevigiano in tribuna. «Noi non tifiamo più» - gridano i tifosi alabardati.È la fotografia di una match davvero brutto, peggio di quello di quattro giorni fa, specie per la prestazione della Triestina. Il treno dei play-off se n’è virtualmente andato. Non per la classifica (ancora 4 punti dal sesto posto sarebbero recuperabili) ma perché questa Triestina non c’è più. Per Maran, Fantinel e i giocatori è il momento di guardarsi in faccia. Per concludere con dignità la stagione ma soprattutto per affrontare il futuro. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. E non è escluso che ci possa essere un divorzio dal tecnico (che comunque ha un biennale). Nelle prossime ore si saprà se e cosa intende fare la società per raddrizzare il periodaccio della squadra.Dopo il doppio rovescio con Grosseto e Vicenza, Maran cerca la vittoria utilizzando un turn-over col contagocce. A riposo finiscono Allegretti, Antonelli e Granoche. Prezioso il recupero di Rullo sulla sinistra mentre per il centrocampo il tecnico trentino si affida al consolidato asse Princivalli, Gorgone e Tabbiani con Testini nel ruolo di incursore dalla sinistra. Davanti rentra Della Rocca dopo lo stop di Vicenza, affiancato dal giovane Ardemagni. Incomprensibile la scelta di spedire Cia in tribuna.Al 3’ l’Unione reclama un rigore per presunto fallo di mani in area di Baccin su una punizione dalla destra battuta da Tabbiani. La posta in palio è alta e la Triestina parte contratta. Al 7’ comunque ottimo lancio di Testini per Ardemagni steso al limite dell’area. Tira Tabbiani la barriera respinge, riprende Princivalli che di sinistro impegna a fondo Guardalben.Al 12’ al primo tiro nello specchio della porta passa il Treviso: Quadrini raccoglie un pallone sui 20 venti metri, il centrocampo non chiude e il destro fa fuori Agazzi. La squadra di Maran accusa il colpo.Al 16’ liscio di Cottafava e girata di Piovaccari, Agazzi salva in angolo. La Triestina cerca di rioridinare le idee ma fa fatica. Discreta occasione in area per Ardemagni al 27’ su cross di Cacciatore dalla destra. Testini salta sistematicamente Baccin ma poi è impreciso nei cross. Sulla destra Cacciatore e Tabbiani duettano con insistenza ma i traversoni sono poco utilizzabili dalla punte. Il Treviso però punge in contropiede è Missiroli al 37’ tutto solo a costringere Agazzi a un miracolo. Si conclude la prima frazione nella quale la squadra di Maran ancora una volta sotto.Maran fa uscire un Della Rocca poco brillante nei primi 45’ ed entra Granoche. Ma l’inerzia non cambia. Gli alabardati non riescono a imprimere ritmo e intensità di fronte a un Treviso che comunque arretra il baricentro e nei contropiede è pericoloso. Al 15’ anche Rullo ha finito la birra: è il turno di Allegretti. Gorgone si posiziona più avanti a destra, Cacciatore si sposta a sinistra. Errore di Minelli al 20’ e il Treviso manca un’occasione per il raddoppio.L’ultima carta Maran se la gioca al 27’ con l’ingresso di Antonelli per Princivalli. E propio Antonelli tenta subito una botta dai 25 metri ma la palla finisce alta. La resa dell’Unione è simboleggiata da una punizione al 37’ di Allegretti che si infrange sulla barriera e dall’espulsione di Gorgone al 46’.
di RENZO SANSON
Nel bilancio delle Assicurazioni Generali non esiste un Ramo Cultura, ma nella storia quasi bicentenaria della compagnia (costituita a Trieste nel 1831) questo ”ramo” è da sempre tra i più rigogliosi, a testimonianza dei forti legami tra il mondo della cultura e dell’arte e un Gruppo - oggi presente in oltre 50 Paesi - il cui fine precipuo è quello di diffondere i concetti, culturali prima ancora che economici, della libera previdenza. Lo testimonia il volume ”La Cultura - Scrittura e arte per la Compagnia”, pubblicato sull’onda del successo dell’album di immagini e memorie edito nel 2008 in occasione dei 75 anni del Circolo Aziendale, che sarà presentato giovedì 30 aprile, alle 17.30, nel Salone degli Incontri del Circolo, in piazza Duca degli Abruzzi 1.Non solo polizze, dunque, ma anche arte e cultura. Perchè fra gli uomini che fecero l’impresa - dagli impiegati ai più alti dirigenti - tanti sono gli scrittori, i poeti, gli artisti e altrettante le personalità di prestigio che collaborano a raccontarla e ad illustrarla sulle ”pagine azzurre” del Bollettino (nato nel 1893), autentiche ”finestre su Trieste e sulla sua cultura” introdotte 35 anni fa da Carlo Ulcigrai, che lo diresse dal 1965 fino all’ultimo giorno della sua vita, il 25 settembre 1992. A lui il libro è idealmente dedicato.Cicerone d’eccezione è Claudio Grisancich - narratore e poeta, ”generalino” pure lui, oggi presidente del Circolo Aziendale - ai cui ricordi si affiancano quelli di Pietro Egidi, Claudio De Ferra e Roberto Rosasco. Sfogliando gli articoli sul tema della ”memoria” pubblicati sul Bollettino fra il 2003 e il 2007, Grisancich in particolare offre ritratti, anche inediti, di tutta una serie di personaggi che vi collaborarono e molti dei quali ha conosciuto personalmente. Impiegati anonimi o dirigenti austeri che in borsa o in un cassetto delle loro scrivanie tenevano non solo documenti o pratiche di lavoro (Ramo Vita, Incendi o quant’altro), ma anche i loro sogni di poeti, scrittori, artisti: poesie, racconti, romanzi in fieri... Abiti grigi e cravatte, insomma, spesso celavano insospettabili, piccoli o grandi, Superman della cultura e delle arti.Certamente il più famoso ”dipendente delle Generali” è stato Franz Kafka. Nato nel 1883 a Praga, assunto nell’ottobre 1907 nell’agenzia praghese della Compagnia triestina e destinato al Ramo Vita, avrebbe voluto volarsene via dalla sua città, nido e gabbia. Sognava il mare e la luce di Trieste. Ma l’aquila - primo simbolo della Compagnia, sostituito dal Leone marciano dopo l'annessione del Veneto all'Italia - non aprì le ali per lui. Trieste rimase un miraggio, ma contribuì forse ad alimentare la sua fantasia mentre scriveva capolavori come ”Il processo” o ”Il castello”, che videro la luce postumi, dopo la sua morte nel 1924.La galleria si apre con le ”donne di penna”: da Alma Morpurgo, vissuta 101 anni e rivelatasi con i romanzi autobiografici ”Voci lontane” e ”Queste mie figlie”, a Marisa Madieri, autrice di ”Verde acqua”, che lavorò al Ramo Incendi («Io non ho ricamato il mio corredo. L’ho invece acquistato con i soldi guadagnati facendo l’impiegata alle Assicurazioni generali, dove prima di diventare insegnante ho lavorato per sei anni»), la quale apparenta il nome di Claudio Magris alla storia delle Generali, dove Duilio, padre del futuro germanista e scrittore, nel 1956 gli fece conoscere Biagio Marin, poeta tra i maggiori del Novecento, bibliotecario delle Generali dal 1942 fino al 1956. «Io ero un piccolo impiegato - scrive il poeta di Grado, - ma il trattamento che mi si è fatto in quei 15 anni è stato sempre dignitoso e rispettoso. È stato il periodo più sereno della mia difficile vita». Poi c’è anche Laura Carnieli (Ufficio Studi), che dei suoi sogni nel cassetto riuscì a realizzare solo un libro, ”Racconti in nero”.Tra gli ”uomini di penna”, ecco la statuaria figura di Emilio Giradini, considerato il maggiore fra i poeti friulani del primo Novecento, il primo assicuratore italiano ad essere onorato con un monumento, a Udine. E ancora Leo Perutz, classe 1882, autore di successo fin dall’esordio con ”La terza pallottola” (1915). Praghese come Kafka, ma più fortunato di lui, perchè fu chiamato a Trieste nel palazzo di riva del Sale (oggi piazza Duca degli Abruzzi) nel Ramo Vita.Alle Generali passò, per pochi mesi, lo statunitense Gerald Parks, nei primi anni ’70, come traduttore dall’inglese (poeta lui stesso, tradusse tra l’altro una silloge di poesie in gradese di Marin candidato al Nobel). Storici di vaglia erano, invece, Oscar de Incontrera (1903-1970), infaticabile ricercatore, e Traian Sofonèa, romeno, coltissimo poliglotta, Ramo Vita (”Ma avrebbe dovuto insegnare all’università filologia o storia”, affermava Marin).Non solo impiegati, si diceva. Nella galleria spicca Cesare Merzagora (1898-1991), uomo politico di rilievo nella storia della Repubblica Italiana fin dalla sua costituzione, ma anche artista, musicista e scultore, che fu presidente delle Assicurazioni Generali dal 1968 al 1979. Pittore e critico d’arte, fondatore nel 1988 della ”Scuola del Vedere”, era Luigi Danelutti, assunto nel 1954 impiegato di III categoria nel Ramo Incendi.Se tanti protagonisti della cultura del Novecento hanno lavorato alle Generali, molti altri vi hanno collaborato dall'esterno, attraverso il ”Bollettino”: con articoli, racconti, illustrazioni. Basti citare Ida Finzi (1867-1946), giornalista e scrittrice triestina firma popolarissima, per esempio sull'Illustrazione Italiana, con lo pseudonimo Haydée; Bice Polli, poetessa e narratrice; Anita Pittoni, poliedrica artista che alle Generali era ”di casa”, indimenticabile animatrice di un ”salotto” dove per anni si ritrovò l'élite intellettuale triestina, da Saba a Stuparich, da Giotti a Quarantotti Gambini, Stelio Mattioni, Mascherini, lo stesso Grisancich e il giovanissimo Ugo Pierri. Una galleria ricchissima di nomi, in cui ritroviamo Sisinio Zuech, ginecologo e poeta, Dino Dardi, critico letterario e filosofo, Guido Sambo, poeta dialettale, lo scrittore Stanislao Nievo (che per il romanzo “Il prato in fondo al mare”, Premio Campiello 1975, consultò gli archivi della compagnia alla ricerca di documenti sul naufragio dell'”Ercole”, dove era perito il suo avo garibaldino Ippolito Nievo). Al mondo delle assicurazioni è legato il nome di Giorgio Voghera, impiegato fino al 1962 presso la Riunione Adriatica di Sicurtà, saggista e narratore, che all'ambiente assicurativo dedicò due gioielli della letteratura di satira: ”Come far carriera nelle grandi amministrazioni” (1959) e ”Il direttore generale” (1974). E non poteva mancare Italo Svevo, prima piccolo impiegato alla succursale triestina della Banca Union di Vienna, poi dirigente della ditta Veneziani, e alla fine riconosciuto come grande scrittore, che nel 1902, in una Trieste «città dell’avere più che dell’essere», annotava sul suo diario: «Ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Conservo solo l’abitudine di non saper pensare che con la penna in mano».Tanti gli artisti, chiamati a illustrare con qualche bel ”pupolo” articoli e racconti del ”Bollettino”: Marcello Mascherini, Gianni Brumatti, Livio Rosignano, Elettra Metallinò, Ugo Pierri, Marino Sormani, Ugo Carà. E poi i protagonisti della scena, a partire da Mario Licalsi, che nel 1955 debuttò giovanissimo nella compagnia filodrammatica del Circolo aziendale e vi tornò dal ’98, assieme a fior d’attori (Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Lidia Braico, Saletta, Lo Vecchio) come animatore delle stagioni del “Teatro a leggìo”.Una sezione del volume è dedicata alla ”tradizione d’immagine” delle Generali, ovvero agli almanacchi e ai manifesti di cartellonisti e illustratori come Dudovich, Boccasile, i Sigon, Achille Beltrame, dei quali parla in un'ampia intervista Pietro Egidi, insegnante, archeologo e studioso di grafica pubblicitaria, autore della maggior parte dei saggi dedicati ai singoli artisti. A chiudere in bellezza un libro che conferma come anche la cultura e l’arte possano rappresentare un’ottima polizza per vivere meglio.
Auto
BERLINO I sindacati canadesi danno il via libera all'alleanza Fiat-Chrysler e il presidente della Commissione Ue, Barroso, sembra prendere le distanze dal commissario Verheugen e dichiara l'imparzialità dell'Unione sulla vicenda Opel. Nello stesso tempo il ministro tedesco dell'industria apre di fatto la trattativa con il Lingotto sulla casa tedesca. Il governo tedesco è pronto a valutare «molto attentamente» un eventuale piano industriale di Fiat per la Opel, ma mette in guardia tutti i possibili pretendenti alla controllata Gm contro un possibile indebolimento delle attività della casa automobilistica in Germania. A partire da occupazione e impianti produttivi.Il giorno dopo la polemica Fiat-Ue seguita alle dichiarazioni del Commissario europeo all'Industria Guenter Verheugen, Berlino - secondo quanto riporta il settimanale Der Spiegel - conferma indirettamente l'interesse della Fiat anche per la partita Opel, ma non esita a mettere rigidi paletti.Il governo «valuterà molto attentamente anche il piano industriale della Fiat - ha detto al settimanale il ministro dell'Economia, Karl-Theodor zu Guttenberg (Csu) -, per vedere quanti siti (produttivi) e posti di lavoro possono essere mantenuti».Che l'obiettivo principale di Berlino sia quello di salvaguardare l'occupazione non è mai stato un segreto, ma a riaffermare il concetto è sceso oggi in campo anche il ministro dei Trasporti, Wolfgang Tiefensee (Spd).«Qualsiasi investitore dovrà rafforzare la Opel Germania - ha detto, secondo l'anticipazione di un'intervista che verrà pubblicata domani dal domenicale Bild am Sonntag -. Chi vuole chiudere impianti e tagliare posti di lavoro, non è» un partner adatto alla Opel.Il messaggio è chiaro e non è diretto solo alla Fiat. Fra le pretendenti, come ha infatti confermato il governo al settimanale, c'è anche il gruppo austriaco-canadese Magna International. Secondo lo Spiegel, Guttenberg vedrà i rappresentanti della Magna già all'inizio della settimana prossima e nel frattempo ha detto: «La Magna è un partner potenzialmente interessante. Naturalmente, esamineremo seriamente un (suo possibile) ingresso» nella Opel.In attesa del previsto incontro, Roland Koch (Cdu), il governatore dell'Assia - il Land dove ha sede la Opel - si è schierato contro il Lingotto, mentre il quotidiano Sueddeutsche Zeitung scrive che il management Opel preferirebbe l'opzione Magna rispetto a quella Fiat.Il gruppo austriaco-canadese sarebbe una «soluzione migliore» rispetto a un investimento da parte del Lingotto, dice il giornale (che cita dirigenti Opel), sottolineando anche che altre due compagnie europee avrebbero espresso il proprio interesse, senza farne i nomi.Da parte sua, Koch ha commentato al quotidiano Hamburger Abendblatt che la «Fiat ha problemi simili a quelli della Opel», sottolineando che anche Torino «dovrà ridurre la capacità per sopravvivere». Prima di un'eventuale acquisizione, ha aggiunto, «la Fiat dovrebbe dissipare i dubbi che sarà solo la Opel a pagare».Un timore, questo, condiviso dal consiglio di fabbrica Opel, che non esclude un'eventuale richiesta di garanzie statali da parte della Fiat al governo tedesco. Forse per questo, Tiefensee ha messo in guardia i potenziali investitori contro simili richieste: «Si devono mettere dei paletti a questo tipo di abusi», ha detto.Intanto, la Commissione europea ha cercato oggi di smorzare i toni della polemica, nata ieri da una dichiarazione di Verheugen che ha suscitato una dura reazione da parte del governo italiano. Il Commissario Ue si è domandato dove la Fiat, che ha definito una «società altamente indebitata», trovi i mezzi per portare avanti sia l'operazione Chrysler, sia quella Opel.«C'è un consenso all'interno del collegio dei commissari che in un momento di crisi economica e finanziaria attuale, tutte le piste di soluzione devono essere esaminate in modo aperto e costruttivo», ha commentato il portavoce della Commissione Ue Johannes Laintemberger, il quale ha concluso: «Come ovvio, questo esame incombe prima di tutto alle parti interessate».
TRIESTE «Se non c’è la disponibilità di altri candidati, si faccia avanti Isidoro Gottardo». Ad ipotizzare la candidatura alle europee del coordinatore regionale del Pdl è il governatore Renzo Tondo ma non solo. Anche il deputato Roberto Antonione, seppure in maniera più polemica, chiama Gottardo a colmare l’attuale vuoto di una presenza del Friuli Venezia Giulia nella lista piediellina per Strasburgo. «La nostra Regione non può non avere un candidato per le europee – afferma Tondo – e, considerata la non disponibilità di Roberto Dipiazza, il coordinatore regionale deve garantire la presenza di un candidato del Friuli Venezia Giulia nelle liste del Pdl per il Nord Est». Nome che potrebbe essere proprio quello dello stesso Gottardo: «Se non ci sono altre persone disponibili – aggiunge il presidente della Regione – deve farsi avanti lui in prima persona anche in virtù della sua esperienza come presidente del gruppo Ppe al Comitato delle Regioni. Naturalmente, se Gottardo porrà la propria candidatura, il partito sarà immediatamente pronto ad appoggiarlo». Dal canto suo, Antonione guarda con preoccupazione all’eventualità di un Friuli Venezia Giulia non rappresentato a Strasburgo né tantomeno nelle liste elettorali del Pdl e chiama a sua volta Gottardo a farsi avanti in prima persona: «Non è pensabile che il Friuli Venezia Giulia non sia rappresentato nelle liste del nostro partito – attacca Antonione – non è mai successo nella storia che nel più grande partito di maggioranza non ci fosse nemmeno un candidato di questa regione».Il no di Roberto Dipiazza ha spiazzato che vedeva nel sindaco di Trieste l’uomo forte da portare in Europa e adesso il tempo stringe per portare al cospetto di Silvio Berlusconi un nome spendibile per un posto tra i tredici della lista per la circoscrizione Nord Est. Una situazione che porta l’ex sottosegretario agli Esteri a rispolverare le critiche nei confronti di Gottardo. «Questa situazione – sostiene Antonione – dimostra chiaramente l’incapacità del coordinatore regionale di gestire una partita così importante. Gottardo ha la responsabilità di trovare uno o più candidati credibili e, visto che si fregia del suo ruolo al Comitato delle Regioni, può candidarsi in prima persona avendo tutte le caratteristiche per concorrere».Antonione è convinto che a livello centrale, «il partito non dirà mai di no se dalla periferia arrivano candidature di peso e proprio Gottardo ha più volte rimarcato di non essere disposto a interferenze romane sul piano locale. I posti in lista sono 13 e ci deve essere uno sforzo per inserire almeno un nome del Friuli Venezia Giulia. O si trova un candidato serio, oppure Gottardo ha due soluzioni: proporsi in prima persona o dimettersi e lasciare che questo ruolo lo ricopra chi è in grado di farlo». Antonione precisa inoltre che «nessuno ha mai convocato i parlamentari della Regione per affrontare una seria riflessione che ritengo sarebbe stata utile. Evidentemente Gottardo risponde soltanto a se stesso». Sulla vicenda interviene anche il sindaco di Gorizia, Ettore Romoli, che chiede a Gottardo, «se non vuole candidarsi in prima persona, di convocare il coordinamento regionale in modo di aprire una discussione e trovare una via di uscita a questa impasse». Secondo Romoli «è assurdo che un partito che ha l’obiettivo di raggiungere il 40% in Regione si trovi senza una candidatura per le elezioni europee. Sarebbe una inaccettabile diminutio per il Friuli Venezia Giulia». Preoccupato anche il senatore Ferruccio Saro, in prima fila nell’ultimo periodo nel criticare la figura del coordinatore regionale del Popolo della Libertà: «Ad oggi si sta andando sempre più verso una non candidatura del Friuli Venezia Giulia all’interno delle liste per le europee. Sarebbe un peccato perché ci sono le condizioni per ottenere un ottimo risultato e la speranza è che, dopo la rinuncia di Dipiazza, si possa trovare una soluzione per non sprecare questa occasione».

IN CENTROAMERICA MORTI A DECINE, CENTINAIA I CONTAGIATI
di NATALIA ANDREANI
ROMA È un mostro a tre teste l’ultimo incubo dell’Organizzazione mondiale della sanità, un incrocio tra virus responsabili dell’influenza umana, aviaria e suina. Un virus «oriundo», mezzo nordamericano e mezzo eurasiatico, «potenzialmente pandemico» che in Messico ha già fatto 62 morti, ha scavalcato il confine con Texas e California, è giunto a New York dove otto studenti malatisi dopo una gita in Messico sono risultati positivi e potrebbe presto attraversare gli Oceani. «La situazione è seria e va seguita con grande attenzione» ha dichiarato ieri da Ginevra il direttore dell’Oms Margaret Chan. Parole confermate in serata dal Centro per il controllo delle malattie trasmissibili di Atlanta. «È chiaro che non possiamo contenere il contagio» ha detto la direttrice Anne Schuchat. La Casa Bianca rileva che l’amministrazione Obama segue da vicino la situazione.Ue al sicuro. Nell’Ue al momento non è segnalato nessun focolaio d’infezione. Ieri c’è stata anche una teleconferenza fra i tecnici dei Ministeri della salute dei 27 per predisporre misure comuni. Per ora non sono state disposte restrizioni ai viaggi internazionali. A riunirsi d’urgenza anche 15 esperti convocati dall’Oms, per presentare gli aggiornamenti sui casi di Messico e Stati Uniti e fare il punto sulle indagini in corso. «Stiamo cercando di capire la pericolosità del virus. È un’infezione nuova e in questi casi la situazione evolve rapidamente» ha rimarcato la dottoressa Chan chiedendo a tutti i Paesi d’innalzare l’attenzione. Al microscopio. Il responsabile del contagio letale si chiama Ah1n1. Un virus ibrido, sinora mai rilevato né negli uomini né nei maiali, che ha allarmato sia gli esperti dei laboratori del Cdc di Atlanta, il centro prevenzione delle malattie trasmissibili più famoso del mondo, che i colleghi canadesi. Il virus contiene infatti segmenti genetici che vengono da altri quattro virus: quelli dell’influenza suina e dell’influenza aviaria del Nord America, quello dell’influenza umana e quello dell’influenza suina Eurasiatica. Di fatto «un cocktail che si è realizzato nel corso di una serie di passaggi e trasformazioni genetiche» spiega Pietro Crovari, epidemiologo dell’Istituto di medicina preventita dell’Università di Genova. «Cocktail sicuramente nuovo e largamente sconosciuto al sistema immunitario umano» aggiunge Crovari.Nessun rischio dal cibo. L’infezione si sta trasmettendo da uomo a uomo con una velocità e una facilità di gran lunga superiori a quelle dell’aviara e i sintomi avvertiti possono essere quelli di una robusta influenza tradizionale: febbre alta, tosse, letargia, difficoltà respiratorie e in qualche caso vomito e diarrea. Al contrario, assicura il Cdc, il virus non può essere trasmesso per via alimentare. Ciò significa che mangiare carne suina cotta o derivati del maiale non presenta alcun rischio. Il maiale habitat. Il suino sarebbe stato, però, il crogiuolo in cui i quattro diversi virus sono riusciti a fondersi acquistando nuove caratteristiche e capacità. I timori di un riassortimento in grado di provocare una pandemia risalgono al 1997, quando la cosiddetta influenza dei polli fece la sua comparsa ad Hong Kong. I virologi dissero allora che era «solo questione di tempo».
di GABRIELLA ZIANI
Solo sotto i riflettori, sguardo fisso al muro, volta la schiena ai bambini che aspettano di fotografarlo. Il pinguino superstite, dopo che il fratello è morto alcuni mesi fa, ha un aspetto depresso e triste. Trovargli compagnia non è facile. È una faccenda che passa per vie diplomatiche tra Italia e Sud Africa, la patria di questa bella e protetta specie.Ieri la giornata festiva e l’ingresso gratuito hanno attirato un po’ di giovani famiglie all’Aquario sulle rive, che per la verità adesso dimostra quasi l’umore del pinguino. Le coperture sul davanti si staccano, le grondaie sono ruggini, e il tettuccio liberty dell’ingresso ha bisogno di un’impalcatura di sostegno. Fuori c’è il baracchino di souvenir, e a chi chiede un catalogo della mostra in corso al primo piano sui ”mostri” impagliati o in vaso di formalina del Museo di storia naturale (animali deformi, siamesi, con cinque zampe, tre code, o un unico occhio gigante) la bigliettaia risponde «non c’è».Mentre pare che la delibera sul Parco del mare stia bussando alla porta del municipio, per il vetusto Aquario costruito nel 1933 è in progetto una indispensabile opera di manutenzione degli esterni (i lavori sono stati inseriti nel piano triennale delle opere). Ma per l’aspetto museale-scientifico non si farà alcun passo, proprio perché l’ombra lunga del futuro ed eventuale Parco del mare impedisce di progettare sul vecchio, la cui sorte è appesa al destino del successore.«All’interno la manutenzione è ottima - afferma l’assessore alla Cultura, Massimo Greco -, ma ampliare gli interni in questa fase non ha senso, non ci si potrà trovare poi con due acquari a 150 metri di distanza...». È scartato, o molto incerto, il coinvolgimento del ristrutturato Salone degli incanti che fa corpo unico con l’Aquario per eventualmente ospitare vasche del Parco del mare anziché mostre («bisogna sentire la Soprintendenza»), e tuttavia l’Aquario ora sembra solo l’appendice del suo corpo autentico. Dentro il percorso è breve, e pur essendoci acqua di mare in perpetuo circolo (pompata dal meccanismo interno alla torre campanaria) le vasche contengono solo pesci che un tempo vendeva la ex pescheria: mormore, saraghi, dentici, moli, sogliole, scorfani, un astice. Fa impressione ai bambini la grande murena, piace il pesce balestra, e i ragazzetti scattano flash alla vasca degli squaletti. Una sedia e un tavolino dovrebbero ospitare un sorvegliante. Sulla parete, attaccate col nastro adesivo e di fatto invisibili, due fotocopie con la pianta del sito e le avvertenze di sicurezza.Una mamma spiegava ieri il tipo di pesce in vasca, e il bimbo ha riconosciuto quello che trova nel piatto, con affettuosa pena. «Adesso non lo mangerai più» ha detto la madre turbata più dai pasti che dal vibratile andare del sarago. Al piano di sopra dove ci sono i rettili carsici in bacheca (alcuni assenti ora per il riposo invernale) il giro dei visitatori è più veloce, i bambini coraggiosi si chinano a guardare il pitone e il boa costrittore chiusi in gabbia, ma i genitori scantinano. Un giovane turista ha impedito ai figli piccoli di curiosare nella zona dei mostri: «Cose brutte». L’Aquario? «Mi sembra un po’ piccolino, un po’ così...» ha detto uscendo. Ma la tartaruga e un pitone, come racconta Sergio Dolce, direttore del Museo di storia naturale, «sono stati salvati dall’incuria e dall’abbandono».Il problema del Comune è trovare dunque compagnia al pinguino Pulcinella, nato a Trieste. Non si pensa, dice Greco, di eliminare la loro presenza, anche se sembrano assai costretti in quell’habitat. «Ma da soli non è detto che stiano male - ribatte Dolce -, meglio che in competizione con un altro maschio». «Adesso sono specie protetta - prosegue Greco - non possiamo andare a comprarne uno allo zoo, perché dev’essere compatibile per specie, né possiamo acquistarlo in Sud Africa, perché non si vendono, ci sono severe norme internazionali. È stato interessato l’ambasciatore del Sud Africa, possiamo solo sperare in un dono, in un atto di liberalità» conclude Greco. Quanto all’impressione che procura la mostra «teratologica», senz’altro di grande pregio scientifico: «All’ingresso c’è un cartello che mette sull’avviso sui feti in formalina».

INCHIESTA: L’ECONOMIA BALCANICA
di STEFANO GIANTIN
BELGRADO Non sono bastate le prime Punto prodotte dagli stabilimenti Fiat in Serbia a ridare slancio all'economia nazionale. Dopo anni di rapida crescita, Belgrado è entrata ufficialmente in una pesante recessione che potrebbe mettere a rischio la stabilità del Paese. I dati parlano chiaro. Il Pil serbo scenderà a un meno 2% nel 2009 dal 5,4% del 2008. Da gennaio, i nuovi disoccupati sono stati trentamila. I conti correnti di oltre 60.000 aziende locali sono bloccati per morosità verso lo stato e il dinaro si è svalutato del 20% da agosto. «Nel 2009 non ci sarà alcuna ripresa e anche il 2010 sarà un anno difficile», prevede Alex Jaeger, direttore del Fondo Monetario Internazionale in Serbia.«Il dato più preoccupante è però il crollo del 20% della produzione industriale», afferma Pavle Petrovic, professore d'economia all'università di Belgrado. «Quella serba non è un'economia basata sull'export», chiarisce Petrovic, «quel dato si spiega solo con il crollo della domanda interna e col blocco degli investimenti stranieri». I serbi non hanno soldi da spendere e molte banche e investitori hanno chiuso i cordoni della borsa. «Dobbiamo solo sperare che gli investimenti stranieri continuino ad affluire», conclude il professor Petrovic, «da questo dipende il nostro futuro».Un'ancora di salvezzaIl presente dipende invece dal Fondo Monetario Internazionale. Il 26 marzo, l'Fmi ha garantito a Belgrado 3 miliardi di euro di prestiti in due anni. La Serbia potrà usare i soldi del Fondo per coprire il buco nel disavanzo pubblico e stabilizzare la moneta. «Chiedere denaro all'Fmi è solo un modo per non affrontare i problemi strutturali del paese», sostiene tuttavia l'economista Miodrag Zec. «Il governo serbo spera che siano gli stranieri a pagare per noi». Diana Dragutinovic, ministro delle Finanze, ha spiegato ai serbi che l'accordo con l'Fmi prevede «misure dolorose». Belgrado dovrà alzare le tasse, tagliare i salari nel pubblico impiego, congelare ogni nuova assunzione nel settore pubblico e forse abbassare le già magre pensioni. Nelle grandi città, dove il costo della vita è paragonabile a quello del resto d'Europa, la preoccupazione è palpabile. «Faccio fatica a comprare da mangiare, se tagliano le pensioni sarà una tragedia», ci dice una pensionata davanti al primo negozio di Belgrado che vende generi alimentari a prezzi «di solidarietà» ai nuovi poveri. E sono tanti i serbi che non vogliono accettare passivamente le drastiche misure dell'Fmi. Alcuni sindacati minacciano di scendere in piazza e la popolarità del premier Mirko Cvetkovic è in calo. Segnali d'ottimismoUna ventata d'ottimismo arriva però dalle banche. L'intesa Serbia-Fmi prevede che gli istituti di credito stranieri continuino a finanziare imprese e privati. «L'accordo con l'Fmi è stato studiato assieme alle banche», spiega Giancarlo Miranda, vice presidente di Intesa SanPaolo in Serbia, dove la banca ha 230 sportelli. «Le banche straniere», sostiene Miranda, «continueranno a sostenere un'economia che ha mostrato ottimi fondamentali di crescita». Il gruppo bancario ritiene che i nuovi interventi possano contrastare la svalutazione del dinaro, un pericolo per le banche straniere che operano fuori dell'Eurozona. In Serbia, molti privati hanno acceso mutui in euro e franchi svizzeri, ma li devono rimborsare con il loro stipendio, pagato in dinari. Se la moneta locale si svaluta, come è accaduto in Romania, Ungheria e Ucraina, aumenta il rischio che la gente non abbia abbastanza soldi per pagare le rate mensili. «I soldi dell'Fmi aiuteranno a stabilizzare la moneta», controbatte Miranda, «il cambio è rimasto fermo nell'ultimo mese e l'accordo con il Fmi assicura molte più risorse per un'eventuale difesa del dinaro».Le imprese italiane in SerbiaL'Italia, secondo partner commerciale della Serbia, è una delle possibili ancore di salvezza dell'economia balcanica. Gli investimenti italiani continuano ad affluire e dare ossigeno al sistema produttivo serbo. La Fiat ha iniziato a marzo a produrre la Punto negli stabilimenti dell'ex Zastava a Kragujevac, la Torino serba. Sono tante anche le piccole e medie imprese italiane che da anni lavorano in Serbia. «Le vendite sono scese del 15% da gennaio», racconta Diego Bellet, titolare della Fibest Srl. L'azienda ha 50 negozi d'abbigliamento made in Italy in Serbia e oltre 300 dipendenti locali. «Sono tuttavia ottimista per il futuro», afferma Bellet, «il costo del lavoro è basso, la manodopera specializzata e la Serbia ha un mercato potenziale enorme che arriva fino in Russia». Roberto Lovato è il presidente della friulana Italsvenska, specializzata nella produzione di mobili e nella lavorazione del legno. «Abbiamo due aziende in Serbia e non possiamo lamentarci. Una di queste ha prodotto utili per la prima volta proprio nel 2009». «Problemi ce ne sono», sottolinea Lovato, «le autorità locali e i controlli doganali spesso arbitrari non ci aiutano. Gli italiani sono visti come dei polli da spennare». «Il potenziale economico e di risorse umane della Serbia è comunque enorme», continua Lovato, «anche se c'è una grande differenza tra le generazioni cresciute durante il socialismo e i giovani, molto più motivati».Nuova emigrazione?Il timore maggiore è che saranno i giovani serbi a pagare il prezzo maggiore di questa crisi. "La Serbia ha un problema demografico", spiega l'economista Miodrag Zec, "abbiamo troppi pensionati e poca gente che lavora, una mortalità alta e natalità zero". La crisi farà salire il numero dei disoccupati, soprattutto fra i giovani e lo stato avrà problemi a finanziarsi senza aiuti dall'estero. "Le persone più anziane hanno vissuto periodi ben peggiori, guerre e crisi, in qualche modo resisteranno", continua Zec, "ma i giovani, se potranno farlo, emigreranno". Una vecchia soluzione per una crisi di cui ancora non s'intravede la fine.(1-continua)

Nessun commento:

Posta un commento