giovedì 23 aprile 2009

RASSEGNA STAMPA: IL PICCOLO


INTERVISTA AL DEPUTATO UDC
«Il partito di Franceschini ha fatto il gioco di Berlusconi, ora serve una nuova forza»
di MARCO BALLICO
TRIESTE Oggi a Trieste, in sala Tiziano Tessitori, presenterà «Costruire una cattedrale» di Enrico Letta. Un incontro che è anche un cantiere politico: «Il centro deve guardare a intelligenze come quelle di Enrico», dice Bruno Tabacci, deputato dell’Unione di Centro, la lista elettorale nata dall’incontro tra Udc e la Rosa Bianca.Onorevole Tabacci, come mai al lancio di un libro di Letta?Siamo amici, ci stimiamo. Ricordo che nel 2007 lui presentò al festival di Trento un mio libro-intervista su politica e affari. Il suo è un contributo importante alla fase politica attuale.Che fase è?Confusa, contraddittoria. Si spinge verso un bipartitismo costrittivo, soluzione poco realistica per la storia e le attitudini del Paese. Mentre il governo manifesta intenzioni anziché riformare.Il pericolo è il Berlusconismo?C’è una parte d’Italia che, sbagliando profondamente, si fida dell’ottimismo e dell’arte di arrangiarsi e finisce col credere che la crisi non sia così profonda come invece è.Governo Berlusconi uno, due, tre. Quale il migliore?Lui è certamente cresciuto. Così come Gianni Letta ha affinato la sua capacità di gestire la compagine governativa. Ma il rapporto tra Berlusconi e il Paese resta basato sul principio del venditore di almanacchi: il venditore incontra il passante e tenta di piazzare l’almanacco nuovo assicurandogli che l’anno che viene è migliore di quello passato. E invece non è così. Affidarsi a qualcosa che non appartiene alla realtà delle cose è un elemento di debolezza.Meriti e demeriti di quest’ultimo governo?Berlusconi ha fatto bene a Napoli e in Abruzzo. Per il resto ha coperto con abilità mediatica errori evidenti, dai decreti Tremonti sino alla pessima gestione del caso Alitalia che costerà 3-4 miliardi di euro agli italiani.Perché tanto consenso per il premier?Perché nel suo campo non ci sono alternative e in quello avversario c’è un Pd che ha messo in campo una gestione disastrosa.L’errore principale?Non intervenire su una questione strutturale come la legge elettorale, approvando il modello tedesco, nel periodo tra il settembre 2007 e il gennaio 2008. Il Pd ha fatto così il gioco di Berlusconi. E poi, come osserva giustamente Rutelli, se il Pd viene percepito come partito della sinistra, che ci sta a fare la componente cattolica? La leadership di Franceschini e il sindacalismo politico di Marini non potranno risolvere la contraddizione di unire in un unico contenitore due tradizioni troppo diverse.Da che parte andranno i transfughi?La parola non mi piace. Preferisco usare il termine «movimenti», che riguarderanno anche un Pdl dove pure si mettono insieme componenti molto differenti e che sin qui si regge solo grazie al cemento del potere, non certo per aver costruito un blocco sociale. Si aprono spazi al centro che persone come Letta credo considereranno.L’obiettivo?Costruire una forza nuova.Un terzo polo?Potrebbe diventare anche un secondo polo. Il 25 aprile? Nel filone dei partigiani cristiani lo trovo una opportunità di unità, non di divisione.

FMI: PREVISIONI
Negli Usa si suicida un manager travolto dallo scandalo dei mutui
di VINDICE LECIS
ROMA Il mondo arretra e vive la peggior crisi finanziaria dalla Grande depressione: il Fondo monetario internazionale ritiene che l’economia mondiale si contrarrà quest’anno dell’1,3% mentre nel 2010 il Pil globale avanzerà con un modesto 1,9%. Il Fmi rivede così al ribasso le sue stime: a gennaio aveva previsto una crescita dello 0,5% per il 2009 e del 3% per il 2010. Tuttavia «il tasso di contrazione dell’economia potrebbe iniziare a moderarsi».Per l’Italia arrivano brutte notizie e il Fmi dipinge un quadro non facile. Il prodotto interno lordo calerà del 4,4% nel 2009 (oltre tre punti di quello globale) e dello 0,4% l’anno successivo. Anche in questo caso le previsioni del Fondo si sono dimostrate ottimistiche: a gennaio gli analisti avevano stimato per l’Italia un calo del 2,1% per il 2009 e dello 0,1% nel 2010. La disoccupazione aumenta e si attesterà all’8,9% quest’anno e crescerà sino al 10,5% il prossimo. I prezzi al consumo saliranno dello 0,7% e dello 0,6% rispettivamente nel 2009 e nel 2010. Il Fmi prevede anche che il deficit italiano raggiungerà quest’anno il 5,4% del Pil e il 5,9% nel 2010 in linea con i paesi dell’area euro.Il debito si attesterà al 115,3% del Pil e crescerà ancora al 121,1% il prossimo anno. Sono dati certamente non brillanti: la flessione del Pil a Eurolandia è prevista nel 4,2% mentre peggio dell’Italia nelle previsioni tra i grandi paesi c’è solo la Germania (-5,6%). Per l’Italia il Fmi segnala che «lo spazio di manovra è limitato» ma che qualcosa il governo la può fare. Ad esempio «migliorare la struttura di bilancio, rendere più efficente la tassazione, riformare gli ammortizzatori sociali». Misure «che non si attuano in un giorno» e che comunque potrebbero aiutare l’Italia in particolare per il debito. La situazione italiana è comune a quella di altri Paesi ma il nostro debito pubblico è «già molto alto» ed è quindi necessario, secondo la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, correre ai ripari attraverso la riduzione della spesa pubblica, eliminando sprechi e inutile dispersione di denaro. Al centro dell’analisi del Fondo la questione degli stimoli fiscali che hanno evitato una situazione ancora più difficile di quella attuale. «Senza di loro - ha osservato il capo economista del Fmi Oliver Blancard - la contrazione dell’economia mondiale sarebbe stata più profonda dell’1,5%-2% rispetto alle stime 2009». Ma gli stimoli fiscali sono un’arma a doppio taglio e il Fmi li sconsiglia a paesi come Grecia, Italia e Portogallo: le finanze pubbliche non reggerebbero. Altri paesi che hanno utilizzato robusti stimoli avranno impatti sui loro conti e si troveranno ad affrontare «una difficile transizione nei prossimi cinque anni». La situazione europea rispecchia queste preoccupazioni. Il deficit francese si attesterà al 6,2% e nel 2010 al 6,5%; quello tedesco sarà rispettivamente del 4,7% e del 6,1%. Complessivamente la performance europea risulta peggiore di quella americana che mostra "segnali di contrazione meno accentuati". Nel 2009 il Pil statunitense scenderà del 2,8% e resterà invariato anche l’anno sucessivo. BORSE: Chiusura positiva per le principali borse europee, trainate da Wall Street (+0,77% Dow Jones in serata). Londra gudagna l'1,08% a 4.030,66 punti. Il Cac 40 di Parigi avanza dell'1,72% a 3.025,24 e il Dax di Francoforte segna un +2,06% a 4594,42 punti. È stata Milano la piazza migliore d'Europa, con il Mibtel che guadagna a fine seduta il 2,31% a 14.369 punti.

ROMA APPROVA IL DECRETO SICUREZZA SENZA RONDE.
SEGANTI: FVG ALL’AVANGUARDIA
«Guai a violarla in nome della governabilità». 25 Aprile, il premier e il leader Pd a Onna
di NICOLA CORDA
ROMA Il Parlamento, la rappresentanza politica e la divisione dei poteri. L’essenza della democrazia è nella Costituzione che «non è un residuato bellico come si vorrebbe far intendere da qualche parte». Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, stavolta affonda il colpo e al Teatro Regio di Torino fa ricorso a tutto il suo corredo politico istituzionale di lungo corso per difendere la Carta costituzionale a due giorni dalle celebrazioni del 25 Aprile, una «festa di tutti e non di una parte sola». E nulla è casuale, neppure l’interlocutore, quando il capo dello stato avverte che «la denuncia dell’ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie. Nella lectio magistralis, alla Biennale della democrazia, coglie nella frase del filosofo Norberto Bobbio, un monito che dice ben chiaro «non dovrebbe essere mai dimenticato».Napolitano nel suo ragionamento sulle istituzioni del liberalismo democratico e sul tema delle riforme parte da qui e la sua «lezione» è carica di riferimenti all’attualità politica italiana, al governo e alla vita democratica del nostro paese. Così, la divisione dei poteri insieme alla pluralità dei partiti dice che «non può essere sacrificabile sull’altare della governabilità».Segnali inviati anche e soprattutto al presidente del consiglio Berlusconi, che in più di un’occasione si è lamentato di «avere un potere limitato», ostacolato a suo dire dal Parlamento e a volte dalla magistratura. L’ultimo sfogo del premier, proprio pochi giorni fa quando ha denunciato il possibile rallentamento della ricostruzione in Abruzzo, a causa delle inchieste giudiziarie.Il Presidente della Repubblica ieri ha sollevato con decisione la paletta costituzionale chiarendo che «i poteri del governo si possono rafforzare ma sulla base di motivazioni trasparenti e convincenti». Trasparenti, appunto e quindi sì alle modifiche della seconda parte della costituzione in maniera condivisa perché è possibile il superamento «di un anacronistico bicameralismo perfetto» per completare il percorso federale con «l’istituzione di una Camera delle autonomie, al posto del Senato tradizionale».Il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi commenta positivamente proprio questo aspetto sostenendo che il capo dello stato «interpreta correttamente i bisogni del paese riconoscendo l’esigenza di rafforzare i poteri del governo insieme a quelli della democrazia». Siamo con il Presidente della Repubblica «senza se e senza ma» dice il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini che sottolinea l’esigenza di riforme con un Parlamento fatto di eletti e non di nominati dai vertici di partito.
IL NODO DEI POSTI AUTO A TRIESTE
Il sindaco: tutti favorevoli. Sosta lungo le Rive, il giudice annulla le multe
di FURIO BALDASSI
Il Comune corregge il tiro sui parcheggi. Impastoiata in imprevedibili lungaggini burocratiche la struttura prevista sotto il colle di San Giusto, di gran lunga la più visibile e prestigiosa dei progetti finora annunciati, l’amministrazione sta cercando alternative sul breve-medio termine. E ritorna prepotentemente d’attualità, dunque, l’unica area che sarebbe cantierabile in project financing, con tempi brevi e disagi relativi, quella di Sant’Antonio. Un obbligo, più che una scelta per l’amministrazione. Mentre procede a passi da gigante il processo di pedonalizzazione (l’avvio dei lavori in via Cassa di Risparmio e successivamente in piazza della Borsa avverrà subito dopo la fine del mercato di «Piazza Europa», il 19 maggio prossimo) i cittadini scoprono quotidianamente di poter, sì, camminare sempre più in libertà, ma allo stesso tempo di non poterlo fare, perché mettere la macchina da qualche parte è diventata un’utopia.«Il progetto di Sant’Antonio va avanti – conferma il sindaco Roberto Dipiazza – perché è una scelta che trova tutti favorevoli, anche a prescindere da qualche benestare in più o in meno. Esistono delle proposte, dovremo fare una gara ma è sicuro che il progetto è importante e ci interessa. Bisogna farlo. Dite di San Giusto in ritardo? Vero, ma avete idea di cosa siano le autorizzazioni? Ero sindaco da un paio di giorni, nel 2001 e mi dicevano: quest’anno parte San Giusto. Bene, siamo nel 2009... Non si può sgarrare, la legge 127 è rigida, prevede addirittura che prima firmi un mio dirigente e poi io! Per questo anche l’ultima delle virgole deve essere perfetta».«Noi abbiamo il dovere di partire – incalza l’assessore ai Lavori pubblici Franco Bandelli – perché la pedonalizzazione ce lo impone. Dipiazza ha ragione: Sant’Antonio va fatto. Ho visto uno dei progetti, non è invasivo, ha due ingressi ed è ad almeno sei metri di distanza degli edifici. La sua realizzazione, inoltre, ci consentirebbe di intervenire anche in piazza Ponterosso, eliminando quegli orribili parcheggi di superficie e riportando tutta l’area a mercato, come prevede il progetto del collega Rovis, che condivido. Di sicuro non possiamo più ritardare, perché ho la sensazione che gli elettori ce la farebbero pagare».Al momento, i progetti in effetti sembrano essere due. La prima a presentarne uno, un paio d’anni fa, fu la società Carena. Prevedeva, come conferma il responsabile triestino, Alberto Modugno, una struttura interrata che al primo piano sotterraneo avrebbe dovuto ospitare un centro commerciale che prendeva la luce direttamente dal soffitto, trasparente. «Il progetto è sempre là – ammette quasi sconsolato Modugno – ma tra il dire e il fare... Comunque non sono pessimista neanche per San Giusto, della cui cordata facciamo parte. Di sicuro i ritardi non dipendono mai dai costruttori, semmai dal Comune».Il secondo progetto è stato invece elaborato da un gruppo di imprese che comprende nomi come Riccesi, Venuti, Mecasol e Palazzo Ralli e, stando alle prime indiscrezioni, sarebbe decisamente più spartano. «Dal punto di vista tecnico – racconta Donato Riccesi dell’omonima società – Sant’Antonio è più semplice degli altri da realizzare. Si scaverebbe in un posto dove il canale è stato interrato, e dunque per la massima parte su sedime di riempimento, attraversato da pochissime quote tecnologiche, senza problemi di allagamenti e esterno alle strade, tanto che entrata e uscita graverebbero sulla sola via San Spiridione, che è già pedonale su tre lati. Sarebbe un’opera ancora più semplice di quella realizzata in piazza Vittorio Veneto». «L’ipotesi Sant’Antonio ha gambe per camminare, ed è forse l’unica», commenta l’assessore Paolo Rovis, che gestisce direttamente il project financing. Qualcosa più di una dichiarazione d’intenti.

LEGGE ELETTORALE
CI PENSINO LE CAMERE di CORRADO BELCI
Secondo Berlusconi sulla data del referendum la Lega avrebbe fatto cadere il governo nel mezzo di crisi economica e terremoto in Abruzzo. E lui cede al ricatto. Bel quadretto, non c'è che dire, tanto i sondaggi vanno bene. Un giorno, buona parte degli italiani avrà un brutto risveglio. È già successo.
Intanto il referendum è indetto, è un diritto costituzionale e ha i suoi costi. Meglio spendere il meno possibile, di questi tempi. Ma spendere per cosa? La gente sa qual è l'oggetto del referendum? C'è chi ne dubita. Perché, al di là della data, c'è il contenuto, il "cosa", del referendum. Riguarda la legge elettorale in vigore, quella che non dà all'elettore il diritto della preferenza e che dà un premio in seggi parlamentari alla coalizione vincente. Le domande del referendum sono fatte in modo che, abrogate alcune norme, la legge "risultante" darebbe il premio non più alla coalizione, ma alla lista più votata.La legge in vigore, nota come "legge Calderoli", è stata definita dal suo stesso autore come «una porcata». Se il referendum passasse la legge risultante sarebbe una «doppia porcata». Perché? I premi in seggi al vincitore sono dati per stabilizzare una maggioranza risultante nel Paese. Nel nostro caso, invece, si trasformerebbe una minoranza in maggioranza. Per fare un esempio: se la lista che raccoglie più voti arriva al 25% (e tutte le altre la seguono al 23, 22, 18 e 12%), le viene attribuita la maggioranza assoluta dei seggi. Una piccola maggioranza relativa (in realtà minoranza rispetto al 75% delle altre messe insieme) diventerebbe maggioranza assoluta: una ferita a morte per la democrazia.La legge del 1953, promossa da De Gasperi e da allora chiamata - a torto - «legge truffa», assegnava un premio in seggi alla coalizione che avesse superato il 50,1% dei voti. In parole povere, stabilizzava in Parlamento una maggioranza reale del Paese. Invece, nel caso attuale, se i quesiti del referendum passassero, la legge trasformerebbe in maggioranza assoluta una minoranza.Conclusione numero uno: non c'è solo la data in cui andare a votare, ma c'è anche il problema di come votare al referendum. Conclusione numero due: la nostalgia dei tempi che furono non è un modo di dire dei "vecchi", ma un vero rimpianto per chi crede nella democrazia. Conclusione numero tre: come gli stessi promotori del referendum dicevano all'inizio, esso ha la funzione provocatoria per costringere il Parlamento a cambiare la «porcata», non per dare un esito brillante al nostro metodo elettorale.Si può arrivare al bipolarismo e anche al bi-partitismo, se volete. Ma non con le camicie di forza da far indossare agli elettori, bensì con la evoluzione delle loro scelte e della loro cultura. In un Paese normale il Parlamento rifarebbe una legge elettorale seria, che rispetti sia le proporzioni dei voti che le esigenze di stabilità. Non ci vuol molto. Ma bisogna mettere gli interessi del Paese sopra quelli di bottega.Corrado Belci

LEGGERE LA CRISI ECONOMICA
Appartiene alla natura umana spingere lo sguardo oltre il presente per cogliere quanto più possibile nel futuro elementi, fattori, indizi che possano guidare i comportamenti nella direzione più conveniente. È naturale, quindi, che nel pieno di una crisi finanziaria ed economica tanto densa di aspetti mai sperimentati chiunque ritenga in grado di farlo si impegni nello scrutarne l'evoluzione, accompagnato dall'ansia di individuarne lo sperato barlume che possa indicare la fine del tunnel.In questo esercizio è facile confondere la situazione nella quale tuttora ci troviamo con quella che alcuni indicatori consentono di prospettare. Proprio queste settimane accesi dibattiti si accendono tra chi, appunto, ragiona su indizi e chi si basa su rilevazioni statistiche; tra chi, come i primi, traggono conforto da qualche sintomo colto qua e là, magari spingendosi ad annunciare che il peggio è passato, e chi al contrario, con dati statistici alla mano, denuncia il rischio di sottovalutare la gravità della crisi che quei dati quantificano con inoppugnabile nettezza.È un po' un dialogo tra sordi che confonde le idee di chi - informandosi attraverso i giornali, le radio e le televisioni - ricava la comprensibile impressione di una babele di messaggi e notizie contraddittorie. E tuttavia, per risolvere questa babele e ricondurre questa ridda di dati, valutazioni, stime e pronostici a una qualche coerenza, basta tenere in maggiore considerazione quanto si riferisce al passato, quanto al presente e quanto al futuro. Il passato è quello del quale tutti ormai abbiamo una qualche cognizione: politica monetaria permissiva (soprattutto negli Stati Uniti) nella illusione di perpetuare elevati tassi di crescita economica, scoppio delle bolle speculative così alimentate (finanza e immobili in primis), dissesti bancari, crisi del credito, coinvolgimento dell'economia reale con caduta dei commerci mondiali e recessione.
Il presente è fatto dalle statistiche che descrivono questo passato con dati che ci possono apparire un po' astratti, come le variazioni negative del Pil o gli stratosferici interventi pubblici per salvare le banche ed evitare così un infarto di tutte le attività economiche, e quelli che mordono più direttamente sulle popolazioni, come la caduta dei consumi e, soprattutto, l'aumento della disoccupazione. In questo presente siamo ancora immersi con tutte le conseguenze sociali che esso comporta e, di conseguenza, con tutta la persistente urgenza di alleviare la condizione delle categorie più colpite. Ma non c'è contraddizione tra la constatazione di questa realtà attuale, col suo corredo di drammatici aspetti sociali, e la constatazione di qualche segnale che può fornire appiglio a una visione meno cupa, se non addirittura più rosea, del futuro. Ecco: il futuro. Già poter affermare che il peggio è passato non è affatto poco quando si poteva temere - ed era realmente nell'orizzonte del possibile - che la crisi volgesse in una depressione, in un crollo dei prezzi, in una prolungata stagnazione delle attività produttive e dei commerci, insomma in qualcosa di simile a quel che avvenne ottant'anni fa. Lo si può affermare sulla base non solo del buon esito degli interventi per stabilizzare le banche (e con esse, di fatto, l'intero sistema finanziario mondiale), ma anche di indicatori reali, come il ritorno del segno positivo nell'andamento dei prezzi degli immobili negli Usa, nella ripresa della domanda di beni intermedi come i prodotti chimici, in un recupero nel traffico di container che denota una tonificazione degli scambi internazionali. Sintomi, indizi, segnali più o meno definiti, certo, ma che consentono, appunto, di considerare superato il picco più acuto della crisi. Le borse di tutto il mondo hanno puntualmente avvertito, quasi certificandolo, questo mutamento di clima: il valore degli indici dei prezzi si era più che dimezzato, ma almeno un quarto di quella caduta è già stato recuperato.Ci vorrà tempo perché il Pil dei maggiori Paesi torni a crescere; anzi, nelle statistiche ufficiali probabilmente vedremo ancora dati sconfortanti. E tuttavia, se ci rifacciamo a due o tre mesi fa è già molto poter dire che l'economia mondiale ha evitato di cadere in quel baratro che improvvisamente le si era aperto davanti. Davvero poteva andare peggio. Per chi ha perso il lavoro o per chi ha visto decurtato il valore dei propri risparmi è una consolazione ancora magra, ma è la premessa perché la ripresa possa cominciare. E forse è già cominciata.Alfredo Recanatesi

Bancarotta fraudolenta in relazione al fallimento della banca della minoranza slovena
Dopo oltre tredici anni dall’avvio dell’inchiesta sul crac della Kreditna Banka, è arrivata anche l’ultima sentenza: quella relativa alla posizione del professor Francesco Antonio Querci. Il docente universitario di Diritto della navigazione è stato condannato a sei anni di reclusione per concorso in bancarotta fraudolenta.Ad infliggere la pena i giudici del Tribunale di Trieste presieduto da Fabrizio Rigo che, accogliendo le tesi del pubblico ministero Raffaele Tito, hanno riconosciuto un diretto coinvolgimento di Querci nel fallimento dell’istituto gestito dalla minoranza slovena in Italia, travolto da una valanga di debiti e messo in liquidazione coatta amministrativa dal Ministero del Tesoro. I difensori del professore universitario hanno già annunciato in ogni caso il ricorso in appello. Ma sull’infinita vicenda giudiziaria si allunga a questo punto l’ombra della prescrizione, che scatterà la prossima estate. Fino all’ultimo i legali dell’ex presidente del Consiglio superiore della Marina mercantile. gli avvocati Giuseppe La Licata e Jessica Mlac, hanno cercato di dimostrare la sua estraneità alla vicenda. Estraneità, secondo la tesi sostenuta in aula, resa evidente dalla mancanza di prove concrete, come partecipazioni a consigli di amministrazione o verbali di altre riunioni, in grado di attestare una qualche influenze esercitata da Querci sulle scelte decisionali della Kreditna. Difficilmente del resto, sempre secondo la linea difensiva, il docente avrebbe potuto giocare un ruolo di primo piano all’interno di una realtà, come la Banca di credito, caratterizzata da una gestione basata su rapporti di fiducia stretti e quasi e quasi esclusivi. Una realtà, insomma, che non consentiva ingerenze da parte di soggetti non appartenenti alla minoranza slovena. Argomentazioni non accolte però, come detto, dal presidente Fabrizio Rigo e dai due giudici a latere, Laura Barresi e Francesco Antoni. A loro giudizio Francesco Antonio Querci ha effettivamente contribuito all’insolvenza dell’istituto di credito. Insolvenza valutabile in 350 miliardi di vecchie lire. Assieme al docente di Diritto marittimo, recentemente tornato a far parlare di sè per l’ultima iniziativa assunta dall’Associazione Porto Franco contro il riuso dell’area dell’Antico scalo, l’altro giorno non c’erano altri imputati. Tutti i nomi finiti in questi 13 anni nell’inchiesta - dirigenti e vertici dell’istituto di credito fallito -, sono infatti già usciti di scena dopo aver scelto la strada del patteggiamento o del rito abbreviato. Soluzioni che Querci, invece, ha sempre rigettato, continuando a ribadire la sua innocenza con sicurezza e baldanza. Le stesse che sfoggia pure oggi, nonostante la pesante condanna inflitta dal Tribunale. «Questa sentenza non ci preoccupa minimamente - ha dichiarato poco dopo la lettura del dispositivo -. Se la Kreditna è fallita lo si deve alle vicende accadute tra il ’94 e il ’96 che hanno visto l’avvento della Banca d’Italia, e non sicuramente ad azioni del ”Gruppo Querci” o, men che meno, del sottoscritto. Valutazioni oggettive che contiamo di poter dimostrare e far valere in appello. La sentenza di condanna, infatti, apre una finestra che ci consentirà ora di far emergere che finora, a causa un’impostazione rimasta ingessata tanto a lungo, non ha potuto affermarsi. Oggi insomma - ha concluso Querci - si è soltanto chiusa una parentesi estenuante e sfiancante. Ma il tempo è galantuomo e renderà giustizia». Quel tempo, appunto, che rischia di far scattare i termini della prescrizione. (m.r.)
L’Italia è una nazione di serie B, ma non vogliamo ammetterlo. Sogniamo ancora di diventare una grande potenza, di tirare i fili del nuovo ordine mondiale. Ci offendiamo se, all’estero, fanno spallucce e commentano: «Ah, gli italiani...». Ma non possiamo negare che la crisi del nostro Paese è profonda. E non riguarda solo la politica, l’uno o l’altro degli schieramenti. Trascina sul fondo il settore dei trasporti, quello della sanità, le poste, la scuola, l’università, l’industria.Innalzare la solita litanie di lamentele non serve. Bisogna chiedersi perché siamo scesi in questo baratro. Lo fa con grande lucidità e coraggio Piero Ottone nel libro ”Italia mia” (pagg. 191, euro 15) pubblicato da Longanesi. E l’ex direttore del ”Secolo XIX” e del ”Corriere della Sera”, che tra le sue firme di punta poteva contare sul Pier Paolo Pasolini degli ”Scritti corsari”, non fa sconti a nessuno.Ottone parte da un aneddoto personale di grande effetto. Quando faceva il corrispondente da Londra per la ”Gazzetta del Popolo”, una volta, sbagliando fila a Calais mentre aspettava di prendere in macchina il traghetto per Dover, si sentì apostrofare da un poliziotto francese che aveva appena sbirciato la sua targa. E che con malcelato disprezzo sospirò: «Ah, les italiens...». Come se per il nostro popolo non ci fosse speranza. Allora, indignarsi fu la reazione più naturale e più giusta. Adesso, il grande giornalista e scrittore si trova a pensare che, tutto sommato, quell’agente, pur così prevenuto, in fondo aveva ragione.L’Italia, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha dissipato tutti i suoi talenti. Ha affidato le sorti del Paese a una classe dirigente che, nella stragrande maggioranza dei casi, non aveva i numeri per tracciare la rotta con lucidità, con lungimiranza. Il problema, però, è che ce ne accorgiamo soltanto adesso, quando siamo sempre più vicini ad assomigliare a certe nazioni che un tempo guardavamo dall’alto in basso: Marocco, Tunisia...«Siamo una famiglia senza genitori, ciascuno va per suo conto - dice Piero Ottone -. E quando dico genitori, intendo che all’Italia manca una classe dirigente in grado di guidare il Paese. Insomma, siamo come una famiglia in cui nessuno fornisce le indicazioni necessarie ai ragazzi per crescere, per imparare a gestire la propria vita».Un peccato originale da cui l’Italia riuscirà a liberarsi?«No, non ci riuscirà. Il problema è chiaro: in Italia non mancano le persone che comandano. Da Silvio Berlusconi in giù, passando per ministri, funzionari, professori e via dicendo, ne abbiamo anche troppi. Quello di cui siamo carenti è una classe dirigente che abbia un suo stile, un’educazione, una sua etica, una tradizione».Manca quello che hanno altre nazioni dell’Occidente?«Penso, per esempio, all’aristocrazia inglese. Che, ovviamente era diversa da quella prissiana della Germania. Il problema è che una classe dirigente seria, affidabile, o c’è o non c’è. Non basta mandare un ragazzo a scuola accompagnandolo con un: ”Tu un giorno sarai la nuova classe dirigente”. Non si improvvisa la tradizione, non si improvvisa la coscienza etica».Tradizione, coscienza, e poi?«Serve esperienza, ma anche la volontà di agire non soltanto nel proprio interesse. Non si può trascurare la comunità. Altrimenti come si può pretendere dal cittadino che si fidi? Come si può chiedergli di seguire i consigli, le direttive che arrivano dall’alto?».Ci sono state persone dotate di grande carisma?«Ci sono stati uomini notevoli. Persone che avevano una fede, un’educazione che li teneva lontani dal puro tornaconto personale. Sto pensando ad Alcide De Gasperi, il più bell’esempio di uomo politico italiano dal secondo dopoguerra a oggi. Cresciuto nell’Impero austroungarico, fortemente attaccato alla fede cristiana, è uscito di scena quando la politica gli chiedeva di entrare in contrasto con il suo credo».E Palmiro Togliatti era della stessa pasta?«Anche lui credeva in qualcosa che lo portava a superare il suo interesse personale. Oggi, purtroppo, la fede cattolica non suggerisce più agli uomini politici quella rettitudine, quell’altruismo che animava De Gasperi. E che dire della fede sociale, marxista? Credo che sia sotto gli occhi di tutti questa sinistra fatta di personaggi in cerca d’autore».Facciamo un passo indietro: neanche ai tempi del Rosorgimento c’era una classe dirigente presentabile?«Diciamo una cosa: c’erano classi dirigenti che avevano una certa tradizione alle spalle, ma di tipo locale. Non nazionale. Penso a Firenze, Venezia, Genova. Comunità che funzionavano, che hanno intessuto commerci con tutta Europa».Non ha citato il Piemonte.«Ecco, quella era la classe dirigente più qualificata per guidare un Paese come l’Italia. Certo, si può dire che la monarchia piemontese era a misura regionale, un po’ montanara, però non priva di una certa raffinatezza. Lord Chesterfield, nel Settecento, raccomandava al figlio, in viaggio attraverso l’Europa per il suo Grand Tour, di guardarsi attorno nei salotti di Torino. Per imparare buone maniere ed eleganza di portamento».Educati, eleganti, ma...«Appunto, ma. La classe dirigente piemontese era candidata a guidare l’Italia, come fece l’aristocrazia prussiana, fatta di possidenti terrieri e militari, in Germania. E fino a un certo punto sembrava anche in grado di farlo, e bene. Pensiamo a Quintino Sella, un ottimo ministro, per non parlare di Cavour, grandissimo uomo di Stato».Cos’è mancato?«Non hanno avuto la forza di far partecipe tutta l’Italia delle loro virtù, delle loro capacità. Alla fine, più che un Paese a immagine e somiglianza dei piemontesi è saltato fuori un incredibile minestrone. Fatto di uomini politici, burocratici, dirigenti raccogliticci dalla Sicilia al Veneto».Gente senza valore?«No, magari un loro valore anche l’avevano, presi singolarmente. Ma messi tutti insieme hanno fatto dell’Italia un pasticcio di cui noi adesso subiamo le conseguenze. Adesso è tardi per correre ai ripari».C’è stato un periodo in cui ha sognato un governo che coinvolgesse Gianni Agnelli, Guido Carli, Umberto Veronesi...«Lo so, forse era un’idea ingenua. Ma gli uomini politici, in quel momento, facevano davvero pietà. Venivano più dalla parrocchia del villaggio che da una tradizione seria. E insomma, anche se non ho niente contro le parrocchie, per fare i ministri ci vuole qualcosa di più. Invece, sul piano industriale gli uomini di valore c’erano».Venivano da enclave che funzionavano bene?«Guido Agnelli era un uomo di esperienza e di statura europea. Ma potrei citare Leopoldo Pirelli, lo stesso Guido Carli, che guidava la Banca d’Italia. Una delle enclave italiane che ha dato all’Italia alcuni tra i migliori uomini di governo del secondo dopoguerra. Ecco, così io ho cominciato a sognare».Come avrebbe distribuito i ministeri?«Sempre nel sogno vedevo Agnelli agli Esteri, Carli all’Economia, Veronesi alla Sanità. Ho dovuto incassare anche l’affettuosa presa in giro dell’Avvocato che diceva: ”Adesso Ottone vorrebbe risolvere i problemi dell’Italia mandando al governo un gruppo di suoi amici”. Che poi, i tecnici ci sono arrivati per davvero al governo».Ma allora Silvio Berlusconi non è un’anomalia per l’Italia?«Se ascoltiamo il giornale ”Die Welt”, Berlusconi ha tutte le caratteristiche dell’italiano medio. E poi, lui non nasce dalle scuole di partito, dai dogmi delle ideologie, quanto da una certa sintonia con la gente. Non a caso lo definiscono populista. Come gran parte dei leader europei».A chi sta pensando?«Anche altri leader europei sono diversissimi da quelli che li hanno preceduti. Penso a Nicolas Sarkozy, ad Angela Merkel, allo stesso Tony Blair. Potrebbero essere definiti di destra, ma anche di sinistra. Sono, ormai, al di sopra dei partiti, al di là delle ideologie. A tutto ciò, Berlusconi aggiunge una particolarità: il suo essere italiano».E il presidente americano Barack Obama?«Lui è forse l’esempio più clamoroso di come sia cambiata la politica anche in America. I presidenti che l’hanno preceduto facevano parte tutti di grandi famiglie o di clan ben inseriti nella vita del Paese. Obama, al contrario, è un uomo qualunque. Suo nonno, in Kenya, portava ancora il perizoma. Non è detto, però, che non possa essere un grande presidente».
Un colpo in grande stile. Un’opera da consumato professionista. Tanto da far impallidire tutti quei suoi ”colleghi” che nei giorni passati hanno rastrellato refurtiva per poche migliaia di euro. Lui, il ladro dai modi gentili, ha messo a segno senza spaccate e senza pistole un furto da 30 mila euro. Questo il valore dell’anello solitario con diamante da cinque carati (farebbe la felicità di qualsiasi fidanzata) fatto sparire con l’abilità di un prestigiatore del calibro del mago Silvan.Lo splendido gioiello ha preso il volo sotto gli occhi dell’amministratrice dell’oreficeria «Via Montenapoleone» di via San Nicolò. E pensare che la donna alla vista del cliente, dimostratosi poi un vero e proprio professionista del raggiro, si era messa immediatamente sul chi va là. «A pelle quell’uomo mi ha fatto subito una cattiva impressione - spiega -. Per questo ho adottato tutta una serie di accortezze: non ho preso rotoli di gioielli dalla cassaforte, ho annotato la targa dell’auto dalla quale era sceso e ho chiesto ad un amico di restare un po’ con me in negozio perché non mi fidavo di rimanere da sola». Le precauzioni non sono bastate tuttavia ad evitare un colpo da manuale. Che, come tale, ha richiesto un lungo lavoro di preparazione fatto di appostamenti e sopralluoghi. Prima di far sparire il costoso solitario, infatti, l’uomo è entrato e uscito un paio di volte nella gioielleria. E, per tentare di conquistarsi le simpatie dell’amministratrice, ha pensato bene di lasciarsi andare alle confidenze, raccontando vita, morte e miracoli. «Si è presentato come uno stilista originario delle Marche, ma attivo a Milano in uno show-room di via della Spiga - continua la giovane donna -. Non smetteva mai di parlare. Mi ha rivelato anche di essere omosessuale, di trovarsi in città perchè qui vive ”l’amore della sua vita” e di voler acquistare un regalo con cui farsi perdonare dalla madre dopo un un litigio avuto con il padre». Proprio la scusa del dono da fare a mammà, ha permesso all’uomo di farsi mostrare e osservare con attenzione gli articoli esposti nel negozio. «Ma, proprio perché non mi fidavo, ho evitato di sistemare in vista articoli particolarmente preziosi - aggiunge l’amministratrice di Via Montenapoleone -. Infatti, alla fine, il ladro ha comprato un posacenere d’argento del valore di 200 euro». Il colpo di grazia è scattato esattamente al momento dell’acquisto. Mentre la donna faceva i conti e confezionava il pacco regalo, il malvivente è riuscito ad allungare la mano verso l’unico gioiello di gran valore sfuggito al suo controllo. Gioiello, come per magia, scivolato poi nelle tasche del fantomatico stilista gay, sparito subito dopo. «Non sa che rabbia quando mi sono accorta del furto - conclude l’amministratrice -. Me lo sentivo proprio che quell’uomo non mi avrebbe portato niente di buono».Di buono, almeno, c’è che la donna ha potuto fornire agli agenti della questura che indagano sul caso una descrizione dettagliata del malvivente - dipinto come un uomo sul metro e settanta, un po’ in carne e con la carnagione olivastra -, e addirittura il numero di targa della Volwasgen color bianco perla su cui si è allontanato. Tutto fa pensare, tra l’altro, che il raid di ieri mattina in via San Nicolò sia opera della stessa mente, e della stessa mano svelta, entrata in azione dieci giorni fa alla gioielleria di Livio Cepak in via Udine. Anche in quel caso, infatti, a mettere a segno il colpo era stato un uomo dai modi particolarmente educati e dalle movenze ammiccanti che non aveva fatto mistero della propria omosessualità, tanto da tentare pure un approccio con il titolare invitandolo a bere un caffè.
IMS COMO 80 ACEGAS TRIESTE 85 (12-28, 34-45, 59-69)
IMS COMO: Pozzi 5, Bergna, Spatafora, Angiolini 13, Anzivino 10, Meroni 14, Sari 7, Ballarate 1, Andreello, Matteucci 30. All. Tritto.
ACEGAS: Lenardon 15, Marisi , Cigliani 12, Pigato 19, Bocchini 8, Benevelli 14, Gennari 5, Di Gioia 3, Zurch ne, Spanghero 9. All. Bernardi.
ARBITRI: Lucifora e Brotto.
NOTE - Tiri liberi Como 24/29, Acegas 31/44; tiri da 3 Como 12/24, Acegas 6/24; tiri da 2 Como 10/25, Acegas 18/31. Usciti per 5 falli: Benevelli, Spanghero, Angiolini, Andreello, Bergna.
dall’inviato
MATTEO CONTESSA
COMO L’Acegas gioca gara-2 come avrebbe dovuto fare già domenica scorsa e batte Como a mani basse, ben oltre l’80-85 finale, rimettendo le cose in parità e rimandando il discorso qualificazione alla bella di sabato sera al Forum di Pordenone. Una vittoria costruita nella prima parte di gara e poi custodita gelosamente, anche se nel finale con qualche affanno di troppo. Un’Acegas cattiva, determinata, precisa, lucida. Insomma, una squadra presente dal primo all’ultimo minuto, che non voleva uscire da questi play-off per niente al mondo e non l’ha fatto. È stata sempre avanti, adirittura fino a un massimo di 19 punti all’inizio del secondo quarto. Tritto le ha provate tutte per rientrare in partita, tentando anche di metterla sulla bagarre. Ma stavolta non c’è stato niente da fare, Trieste era più forte di tutto e tutti. L’arbitraggio non è stato sfavorevole ai biancorossi, ma neppure a favore. Sicuramente qualcuno deve aver capito che domenica scorsa i due fichietti avevano sbagliato e deve aver sussurrato qualche parolina ai signori Lucifora e Brotto, invitandoli a mantenere attenzione ed equanimità. C’è stato solo un momento nel quale i due fischietti sono andati sopra le righe, a metà della seconda frazione, e hanno rischiato di far degenerare tutto. Ma poi un provvidenziale time-out ha permesso a tutti di ritrovare la lucidità e le cose si sono ricomposte. L’Acegas ha fatto quello che doveva: difesa intensa dal primo all’ultimo minuto e puntate velocissime verso il canestro. Ha avuto mano più calda da fuori e così ha costruito il fulmineo vantaggio. Ma ha avuto poi un Cigliani kamikaze che ha annullato Angiolini e un monumentale Gennari sotto i tabelloni. Sono stati questi i capisaldi sui quali è stata costruita la rinascita. E adesso c’è la terza puntata, quella definitiva. Chi vince sabato va in semifinale.L’Acegas inizia come aveva finito domenica: difesa feroce e altissima, capovolgimenti rapidi di fronte e mani caldissime da fuori: 3 bombe immediate (due Bocchini e una Lenardon) e un altro gioco triplo di Cigliani e dopo 3’55” Trieste è già in fuga: 4-16. Non c’è partita in questo primo quarto, Como non riesce a reggere il passo dei biancorossi: il primo parziale si chiude su un 12-28 che dice tutto. L’Acegas è incontenibile, dopo un minuto e mezzo del secondo quarto siamo addirittura sul 12-31. C’è solo un momento di bagarre, quando gli arbitri fischiano nel giro di mezzo minuto prima due tecnici consecutivi ai padroni di casa e poi un intenzionale a Pigato che inaspriscono gli animi in campo e sugli spalti. È una sferzata all’orgoglio dei padroni di casa che crescono d’intensità e pressando a tutto campo riescono quasi a dimezzare lo svantaggio. Si va al riposo sul 34-45.Como si regge su un Matteucci infinito e infallibile, che fa di tutto: prende rimbalzi, segna da 2 e da 3, ruba e recupera palloni, serve assist ai compagni. Ma lui è un solista, mentre l’Acegas ieri sera è un’orchestra sinfonica. Quindi non cede, ma addirittura allunga (44-59 al 5’44”). Como trova 3 triple consecutive (Sari, Matteucci e Meroni) e in un minuto torna a -8 (59-67 al 9’15”). E in effetti è solo sulle bombe che i padroni di casa riescono a tenersi aggrappati alla partita, perchè da sotto la via del canestro è sbarrata.Nell’ultimo quarto l’Acegas controlla la partita, girando la palla al limite dei 24” per fare passare il tempo. Così facendo cede qualcosa a Como, che sempre dalla distanza prova a rientrare in partita. Ma non è sempre domenica e stavolta l’Acegas ha il cuore forte.
di CIRO ESPOSITO
TRIESTE «La partita contro il Treviso bisogna vincerla a tutti i costi. La squadra lo sa e siamo convinti che saprà rispondere». Il presidente Stefano Fantinel fa sentire la voce della società dopo la sconfitta di Vicenza. Già oggi la squadra partirà per Treviso. Una sorta di pre-ritiro che, secondo i vertici societari, «serve a stare assieme prima di una partita determinante». La società sposa un profilo soft. Ma è il segnale che dopo cinque sconfitte in sette partite e la zona play-off ancora a tre punti, non c’è rassegnazione. «Io sono arrabbiato, il tecnico anche e i giocatori pure» spiega Stefano Fantinel.Prima del match con il Brescia lei diceva che avevate davanti tredici finali. Nelle prime sette la Triestina ha incassato cinque sconfitte.«Speriamo di aver esaurito il bonus negativo. Magari da qui a fine maggio ne vinciamo cinque»Ma quattro punti in sette partite sono la fotografia del fatto che qualcosa non funziona. Come interverrà la società?«È un dato di fatto che non siamo riusciti a raccogliere quel che era nei nostri programmi. Ma i conti li tireremo alla fine. Avevamo quattro punti di vantaggio e ora dobbiamo rimontare. Poco più di un mese fa ci sentivamo in paradiso e ora ci ritroviamo nel limbo. Ma tutti dobbiamo continuare a lottare».Cosa significa anticipare di un giorno il ritiro?«Vogliamo dare un’opportunità in più alla squadra e al tecnico per preparare con tranquillità la trasferta di sabato a Treviso. Non possiamo buttare via un obiettivo che è alla nostra portata. Avevamo una dote, l’abbiamo persa, adesso dobbiamo andare a riconquistarcela. A cominciare dal prossimo match».E se la Triestina perde a Treviso?«È un’ipotesi che non prendo in considerazione. Sabato bisogna vincere e basta. Mancano sei partite e tutto è ancora possibile. Abbiamo parlato con Maran e i giocatori. Tutti crediamo ancora di poter riacciuffare il treno dei play-off»Ma avete già discusso con i giocatori del premio in caso di raggiungimento dell’obiettivo?«Il premio è già stato fissato dall’inizio del campionato. Tutti dobbiamo impegnarci per raggiungere questo traguardo. Anche perché tutti abbiano qualcosa da guadagnare». Ma come si fa a trasmettere fiducia ai tifosi in questo momento negativo?«Abbiamo dimostrato di essere un gruppo importante. È vero che la squadra ha perso terreno in queste ultime settimane. Ma sono convinto che sapremo risollevarci e mi auguro che anche la città lo capisca».
IL MINISTERO CROATO: ALGHE TOSSICHE, ATTENZIONE
di ANDREA MARSANICH
FIUME Scattato in Croazia, soprattutto lungo la costa, l’allarme biotossine marine. È stato il ministero dell’Agricoltura, Foreste e Pesca a lanciare un appello in cui si invitano cittadini, turisti e titolari dei centri di ristorazione a prestare la massima attenzione ai consumi di molluschi bivalvi, uova e lumache di mare.Il pericolo è legato ad una possibile intossicazione, che potrebbe rivelarsi anche grave e la cui origine è stata spiegata nell’appello del dicastero: in questi ultimi tempi, diverse zone dell’Adriatico stanno avendo una consistente fioritura di alghe fitoplancton, contenenti biotossine, di cui si nutrono le su esposte specie. Il rischio di essere intossicati c’è, è reale e dunque vanno prese tutte le precauzioni possibili.Si deve stare attenti quando si ordinano cozze, ostriche, capesante, mussoli, dondoli (i tartufi di mare), vongole ed anche lumache e uova di mare, tutte delizie di cui molte persone vanno ghiotte, ma che potrebbero nascondere l’insidia delle biotossime. Secondo i responsabili del ministero, non bisogna scherzare soprattutto con le uova di mare (microcosmus sulcatus), che – filtrando quotidianamente enormi quantità di acqua – si pappano le alghe tossiche, costituendo pertanto un pericolo per la salute dell’uomo.In questo senso va detto che l’uovo di mare è un prodotto molto ricercato negli ultimi anni, che viene offerto in diversi ristoranti della riviera istro – quarnerino – dalmata e che vede in prima fila quali consumatori i clienti italiani. Il microcosmus sulcatus, ritenuto il più potente afrodisiaco tra gli organismi marini, può dunque fare spedire coloro che lo consumano diritto all’ospedale, con grado di intossicazione che dipende da tipo e quantitativo di biotossine ingerite.Non c’è da scherzare dunque, con i cittadini e i proprietari di ristoranti e trattorie che vengono invitati ad acquistare i frutti di mare esclusivamente presso i rivenditori autorizzati. I prodotti devono inoltre possedere il regolare contrassegno, mentre i commercianti hanno l’obbligo di avere la documentazione concernente la compravendita.«Coloro che acquistano molluschi bivalvi, ricci, lumache e uova di mare direttamente dai raccoglitori o comunque da persone non autorizzate – così nel documento diffuso dal ministero – lo fanno a proprio rischio e pericolo». A complicare la situazione, sostengono i veterinari croati, è la nuova disposizione di legge – scattata agli inizi del mese scorso – in base alla quale non sono più obbligatori i controlli veterinari sui pescherecci, che in pasato venivano effettuati prima che pesci, molluschi e crostacei finissero sul mercato.Al posto dei controlli, sono gli stessi pescatori a dovere compilare un documento in cui garantiscono che il prodotto da loro pescato e messo in commercio è idoneo dal punto di vista igienico – sanitario. Va rilevato che un paio di giorni dopo l’entrata in vigore della nuova regola, in una trattoria di Laurana vi è stato un caso di intossicazione per consumo di pesce azzurro. «Mangiare pesci, molluschi bivalvi e crostacei – questa l’ opinione degli operatori veterinari croati – è diventato purtroppo molto rischioso, per l’ assurdità di una disposizione che andrebbe assolutamente cambiata».

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