venerdì 24 aprile 2009

RASSEGNA STAMPA: IL PICCOLO


ALLARGAMENTO UE
Determinante la disputa sui confini «Stiamo mediando, soluzione vicina»
di MAURO MANZIN
TRIESTE La presidenza dell'Unione europea ha deciso di rimandare la conferenza di accesso della Croazia (la riunione dove il negoziato di adesione fa progressi) prevista per oggi, perchè la Slovenia mantiene il suo veto all'ingresso di Zagabria a causa della disputa sui confini. Secondo quanto si legge in un comunicato della presidenza della Repubblica Ceca dell'Ue, «il contenzioso sui confini tra Slovenia e Croazia non è ancora risolto e la Ue fisserà una nuova data per la conferenza di accesso non appena vi saranno progressi». Per quanto riguarda invece il confine marittimo nel golfo di Pirano Rehn si affida al diritto internazionale e alla volontà di buoni rapporti tra i due Stati confinanti.Il governo di Lubiana al momento ha posto il veto al progresso del negoziato di adesione della Croazia, preoccupato che un'eventuale ingresso di Zagabria possa pregiudicare la soluzione della controversia sui confini che non è mai stata risolta dal 1991, da quando i due Paesi hanno ottenuto l'indipendenza. La presidenza Ue rende noto che «le tre presidenze semestrali, Francia, Repubblica Ceca e Svezia, assieme al commissario all'Allargamento Olli Rehn, si sono incontrate mercoledì con le autorità di Slovenia e Croazia». La Ue rinnova poi il sostegno alla mediazione di Rehn, convinta che «una soluzione è vicina». Mediazione Rehn che prevede la nomina di cinque «arbitri», uno nominato dalla Slovenia, uno dalla Croazia e gli altri tre stabiliti da una mediazione comune tra i due Paesi. Se questa dovesse fallire i tre rimanenti «arbitri» sarebbero nominati dal Tribunale internazionale dell’Aja. La Commissione europea, sostengono fonti diplomatiche, spera che Lubiana e Zagabria accettino la proposta Rehn e che la stessa venga al più presto ratificata dai rispettivi Parlamenti. Il ministro degli Esteri sloveno, Zbogar ha affermato che la proposta Rehn sarà attentamente esaminata in sede di commissione parlamentare, mentre il suo «collega» corato, Jandrokovic si è dimostrato molto più ottimista definendo la nuova proposta della Commissione europea come «una buona occasione».Ma sta di fatto che, nonostante i proclami e le buone intenzioni l'incontro tra i premier della Slovenia e della Croazia sulla disputa di confine, previsto per martedì prossimo, è stato rinviato di almeno una settimana, all'inizio di maggio. Lo ha reso noto ieri il governo croato in un comunicato stampa diffuso nel pomeriggio a Zagabria. In un primo momento Lubiana aveva rinviato l'incontro senza fornire una spiegazione, ma nel pomeriggio è stato spiegato che il premier Borut Pahor prima di vedere Sanader «vuole sentire le opinioni dei dirigenti politici di Lubiana sulla nuova proposta della Commissione europea relativa alle modalità della soluzione del contenzioso».

OGGI L’ASSEMBLEA DELLA COMPAGNIA DEL LEONE. L’INTERVISTA AL PRESIDENTE «Generali punta alla leadership in Europa»
Bernheim: «Trieste sede irrinunciabile. Altro mandato nel 2010? Sì, se gli azionisti me lo chiedessero»

Il gruppo. Le Generali, fondate a Trieste nel 1831, sono una delle più importanti realtà assicurative e finanziarie internazionali con compagnie di assicurazione e con società operanti principalmente nei settori finanziario e immobiliare.l Le dimensioni. Assicuratore leader in Europa con 69 miliardi di fatturato nel 2008 il gruppo triestino è presente in 64 Paesi con oltre 60 milioni di clienti in tutto il mondo, 84.063 dipendenti (15.706 in Italia), oltre 350 milioni di euro di asset management.l I mercati. Le Generali si collocano ai primi posti in Germania, Francia, Austria, Spagna, Svizzera e Israele. Nel corso degli ultimi anni, il gruppo ha ricostituito una significativa presenza nei Paesi dell’Europa centro-orientale e ha cominciato a svilupparsi nei principali mercati dell’Estremo Oriente, tra cui la Cina e l’India.
di PAOLO POSSAMAITRIESTE Antoine Bernheim dalla vetta dei suoi 84 anni punta il cannocchiale sul passato, suo e di Generali, ma non si tira affatto indietro nemmeno dinanzi alla tentazione di dare uno sguardo al futuro (suo e di Generali). Nel giorno dell'assemblea degli azionisti, il finanziere francese che veste i panni di custode della "italianità" della Compagnia del Leone, parla della crisi internazionale, della riorganizzazione del gruppo avviata con la fusione Toro-Alleanza, dell'accordo fallito con banca Intesa, della governance,. E della possibilità di mantenere il timone della società.Presidente Bernheim, partiamo dal contesto in cui ci troviamo. Ritiene che i governi occidentali abbiano messo in campo tutte le iniziative più appropriate per condurci fuori dalla crisi?Viviamo una crisi economica e finanziaria molto severa, rispetto alla quale i governi hanno attuato una autentica rivoluzione nelle loro politiche. Non si vede più la differenza tra sinistra e destra, quanto alle politiche economiche, quando per esempio pensiamo al piano di nazionalizzazione delle banche attuato dal governo conservatore di Bush. Gli Stati Uniti hanno messo a disposizione del sistema bancario una enorme massa di capitali. Non sono del tutto sicuro che loro abbiano congegnato ancora gli strumenti più adeguati per controllare che uso fanno i banchieri di quei soldi. Riguardo alla Francia, il piano di rilancio fa leva su un'intelligente accelerazione di nuove infrastrutture che producono efficienza e lavoro, mentre le banche mi pare stiano tornando complessivamente a funzionare. Il sistema bancario italiano è tra i meno intaccati dalla crisi finanziaria globale, perché poco esposto ai titoli tossici e ai subprime americani. E poi, nella misura in cui hanno bisogno di liquidità, le banche italiane possono accedere ai Tremonti bonds. Particolarmente preoccupante appare la situazione nell'Europa centrale, dove alcuni paesi, già prima della crisi, hanno enormi problemi a finanziare la loro crescita. In Spagna la crisi è profonda, come posso vedere dall'osservatorio del Santander, di cui sono amministratore per conto di Generali. Santander è una delle migliori banche del mondo e ciononostante il titolo è caduto in modo davvero anomalo.Lei è tra coloro che vedono indizi di una ripresa o, quanto meno, di un rallentamento della crisi?Premesso che sono agli antipodi della cultura catastrofista imperante da qualche mese a questa parte, mi pare che i segnali di ripresa ci siano. Il punto vero, una volta che le banche avranno ricominciato a immettere liquidità nel corpo dell'economia, consiste nella tenuta dei posti di lavoro e quindi della capacità di spendere dei consumatori. Dopo di che, il catastrofismo diffuso anche dai media non fa che creare panico e sfiducia: pare ci sia una sorta di gara a chi la vede più negativamente. C'è pure chi dice che questa crisi non è arrivata al fondo e sarà peggiore del '29. Mi chiedo chi se la ricorda, la crisi del '29?.Nemmeno lei ne avrà un ricordo personale, della crisi del '29.Avevo cinque anni, nel '29, non posso dire che me ne sono fatto un'idea. Ma ho bene impresso che la mia famiglia lasciò un appartamento sontuoso e che abbiamo traslocato in un alloggio più semplice, con un affitto meno oneroso. Il potere d'acquisto per tutti, allora, decadde fortemente. Mi pare che le condizioni oggi siano diverse e che ci siano ragioni per confidare nel futuro.Venendo a oggi, quale sviluppo immagina per Generali, tenendo anche conto dell'attuale panorama? Quali i paesi sui quali maggiormente puntate?Data la mia età, per capire il futuro di Generali dovrete chiedere al mio successore. Ma posso dire intanto che contiamo molto sulla crescita del mercato in Cina, dove siamo già oggi la prima compagnia straniera nel ramo vita. Quanto alla Russia, abbiamo colloqui in corso con l'azionista di maggioranza di Ingosstrakh. Vorrei che Generali avesse un'importante presenza in Russia, ma fino a oggi questi contatti non hanno avuto esito. Non disperiamo. In India abbiamo formidabili possibilità di sviluppo. Più in generale, sono ottimista sulla possibilità di affermare la nostra ambizione di divenire la prima o la seconda compagnia d'Europa. Questa è la sfida del futuro.Per accelerare e finanziare questo progetto di crescita su base internazionale, Generali avrà bisogno di un aumento di capitale?Non abbiamo necessità di aumentare il capitale oggi. Nei periodi di crisi possono presentarsi opportunità di acquisizioni e quindi, se ci fossero occasioni eccezionali, sapremo trovare le risorse finanziarie. Abbiamo la credibilità per chiedere soldi ai soci e al mercato, nonostante le condizioni avverse del mercato attuale.A parte il tema delle acquisizioni, quali sono le linee guida del futuro di Generali? La fusione tra Alleanza e Toro rappresenta solo un caso a se stante?La fusione tra Alleanza e Toro tende a una razionalizzazione dei business Vita e Danni perseguiti oggi dalle reti delle due compagnie. Questa potrebbe essere una prima tappa di un percorso che coinvolgerà l'intero gruppo in Italia. È qualcosa che guardiamo con cautela, passo dopo passo, valutando bene prima quali saranno i vantaggi derivanti dall'integrazione tra Alleanza e Toro. Del resto, ho visto da vicino la moltitudine di compagnie fuse in Generali France, da 'Concorde' a ’Le Continent', da 'La France' a 'Trieste e Venise', con risultati assolutamente spettacolari. In questo momento, al vertice di Generali è in corso un dibattito tra chi vorrebbe accelerare questo processo di riorganizzazione e concentrazione in Italia, e chi è più freddo. Sono personalmente favorevole perché penso ci siano spazi per risparmi e recuperi di efficienza, ma non sono al cento per cento sicuro. Niente è stato ancora deciso.Come intendete rimpiazzare l'accordo di bancassurance decaduto con il gruppo Intesa Sanpaolo?Argomento molto delicato, perché personalmente avrei volentieri rinnovato l'accordo con Intesa SanPaolo. Se è vero che il fatturato diminuisse di anno in anno e fosse poco remunerativo per noi, portava quote di mercato. È stato proposto in Consiglio di amministrazione di rinnovare l'accordo, puntando a chiedere all'Antitrust di eliminare il vincolo che ci ha tolto la possibilità di commercializzare i nostri prodotti in un migliaio di sportelli Intesa. Ma la maggioranza degli amministratori di Generali non è stata d'accordo con me dunque l'accordo è stato disdettato. Spero, un giorno, che sapremo riprendere in mano un accordo di bancassicurazione con Intesa SanPaolo. Generali resterà comunque, finché ci sarò io, azionista devoto e leale di Intesa, per la stima e l'ammirazione che ho nei riguardi di Bazoli e di Passera, che hanno creato un ottimo istituto. Dopo di che, a mio parere, dovremo cercare anche altri partners per sviluppare progetti di bancassurance.Che cosa vi attendete dal 2009 in termini di risultati per la compagnia?Le prime indicazioni sul fatturato del primo trimestre 2009 segnalano che siamo sostanzialmente allineati allo stesso periodo dello scorso anno, il che se sarà confermato dai numeri finali della trimestrale sarà un dato molto positivo. Sui risultati dell'annata è impossibile fare previsioni, date le condizioni di mercato. In fondo, soffriamo molto meno dei nostri principali concorrenti perché meno ci siamo esposti alla cosiddetta finanza creativa, dato che non abbiamo comprato titoli tossici né subprime. Abbiamo acquistato solo pochissimi prodotti derivati, in logica spot per operazioni di copertura. La cautela ci ha salvaguardati.Parliamo di governance, ossia della cabina di regia del gruppo. Non è di ieri la contestazione per esempio, formulata anche dal presidente di Mediobanca Cesare Geronzi, secondo cui due amministratori delegati sarebbero troppi.Il tema della governance mi innervosisce. La governance è buona se il management è buono, la governance è cattiva se il management è poco valido. Quando nel 2002 mi è stato chiesto di tornare in Generali, ho posto la condizione di avere poteri esecutivi e sono convinto che sia del tutto opportuno. Quanto alla questione dei due amministratori delegati, l'assetto è corretto perché chi gestisce il business in Italia non può coltivare al meglio anche i paesi stranieri. Il nostro amministratore delegato per l'estero ha rapporti con i capi di Stato e i massimi esponenti dei Paesi in cui operiamo, proprio perché il nostro rappresentante su questo versante dello sviluppo non può essere nulla di meno che un amministratore delegato. E poi, sulla base di una specifica delibera del Consiglio di amministrazione, il presidente è l'arbitro nel caso di disaccordo tra i due top managers. Tutto ciò per dire che la governance non è buona in sé, ma dipende solo dalla qualità dei dirigenti e dalla precisione con cui sono definiti i ruoli. Non avremmo ottenuto risultati così positivi, se il management non fosse stato di chiaro buon livello. Capisco dunque che i dirigenti possano essere criticati, ma criticare la governance è prova di stupidità. I miei nemici attacchino me, non lo strumento.Presidente, lo scorso anno in assemblea è stato molto contestato, ma oggi ha ancora molti nemici?Nell'assemblea del 2008 ho risposto per tutto il giorno a una raffica di critiche da ogni lato, mi sembravo più come un attore di cinema. Se ho molti nemici, come lei mi suggerisce, forse è la prova del mio successo. Nei paesi occidentali il successo genera gelosia e non riconoscenza. Se facessi male forse avrei più amici.Si aspetta di essere ricandidato nel 2010, come riconoscimento del lavoro fatto?Se leggete i giornali, vedrete che nel 2010 avrò 85 anni. Non sono un bebè e non porto da un pezzo i calzoni corti. Io non mi candiderò. Se la salute lo permettesse e se gli azionisti me lo chiedessero, potrei infliggermi la dolce violenza. Per mia natura faccio fatica a concepire la mia vita lontano dal lavoro. Sono affezionato a questa società, in cui sono entrato nel 1973 e in cui ho trascorso 10-12 anni da vicepresidente e 11 anni da presidente. Nel primo quadriennio della mia presidenza, Generali ha raddoppiato il fatturato e triplicato la capitalizzazione di Borsa. Dopo di che, come riconoscimento di questo buon lavoro fatto, mi sono meritato il benservito degli allora padroni di Mediobanca. Ma pur con tutte le trasversie e le difficoltà, tra le mura di questo palazzo ho passato un bel pezzo di vita.Come definirebbe il rapporto, suo e di Generali, con Trieste?Anche se magari non traspare, sono per natura fedele e penso che Trieste sia la sede irrinunciabile per Generali. Siamo una delle pochissime compagnie rimaste in città, vogliamo rimanerci. Trieste è Generali, Generali è Trieste. Riguardo alle tradizioni, quando sono tornato in Generali ho ripreso il filo del mecenatismo rivolto alle attività culturali, sociali, religiose, perché sono persuaso che tali iniziative appartengano al profilo storico della compagnia e al suo prestigio. Ovviamente, sarebbe più semplice e per certi versi più funzionale avere la sede a Milano, perché Trieste non è certo al centro del mondo, però finché ci sarò io la questione non si pone. A titolo puramente personale, non posso dire che Trieste sia la città dei miei sogni, qui ho davvero pochi amici anche se ci vengo da un quarto di secolo e se, in effetti, non mi ci trovo mai da solo.

SEMPRE MINORE IL VANTAGGIO DEL PREZZO AGEVOLATO
Benefici quasi azzerati per il diesel: su un pieno risparmio di 50 centesimi
di ROBERTO URIZIO
TRIESTE Mentre si susseguono gli attacchi allo sconto regionale sui carburanti, da Bruxelles e dall’Austria, i benefici della riduzione di prezzo si fanno sempre più limitati. Soprattutto per chi guida una vettura diesel, lo sconto sul gasolio è praticamente azzerato arrivando ad un massimo di soli 10 millesimi di euro nella fascia confinaria con la Slovenia che scende a 0,003 euro al litro nell’area più distante dal confine orientale.Vale a dire che, se consideriamo 50 litri per un pieno, il beneficio non va oltre i 50 centesimi. Sconto decisamente più consistente per la benzina verde: 0,119 euro al litro nell’area triestina e isontina (quindi quasi 6 euro in meno per il pieno) che scendo a 0,074 euro nel pordenonese.Lo sconto viene calcolato giornalmente in base alla differenza di prezzo tra benzina e gasolio sloveni e quelli italiani, prendendo come riferimento il prezzo minimo regionale. Fino all’anno scorso il confronto lo si faceva con il prezzo minimo di prima fascia (quella più vicina al confine) ma, in termini pratici, ad oggi non cambia nulla perché i due prezzi minimi corrispondono visto che la benzina più economica la si trova in un distributore di Gorizia (1,141 euro al litro) mentre per il gasolio bisogna recarsi a Tavagnacco (0,999 euro al litro) ma a Gorizia la si trova ad un solo millesimo di euro in più.Per i rappresentanti dei benzinai siamo di fronte ad una «mancata capacità di esprimere una reale concorrenza dei prezzi rispetto alla Slovenia. – afferma il presidente della Figisc, Mauro Di Ilio - In questo generale marasma, bisogna capire che, mentre è fondamentale difenderci in ogni maniera dalle interpretazioni fuorvianti degli euroburocrati, mentre è giusto ed opportuno trovare una via d’uscita anche alternativa all’attuale sistema, bisogna mantenere la rotta saldamente entro due principi: il primo è quello di intervenire dove serve, il secondo è bisognerebbe intervenire subito e che ancora, dal 2008, non si è intervenuti per arginare questa emorragia. Chi va a spiegare ai Gestori di Gorizia, piuttosto che a quelli di Trieste o di Cividale del Friuli che, non solo non si intende fare alcunché per rimediare ad un anno e quat-tro mesi di disastro, ma magari si intende anche retrocedere la fascia di sconto attuale in modo tale che ciò che è già gravissimo diventi totale ed irreversibile?».Ma l’assessore regionale Sandra Savino invita alla prudenza sulle valutazione rispetto alla possibile riparametrazione degli sconti partendo da nord e tenendo conto del prezzo austriaco, più basso di quello sloveno: «Al momento c’è solo in corso uno studio di fattibilità – afferma l’assessore – per cui non è il caso di creare allarmismi. Non c’è alcuna intenzione da parte nostra di penalizzare alcun territorio, in questo caso Gorizia e Trieste».Ma per il consigliere regionale Roberto Asquini, «i benzinai di Trieste e Gorizia devono rendersi conto che il mondo è cambiato, non è colpa di nessuno. Bisogna superare i vecchi strumenti e trovarne di nuovi per superare le difficoltà».Sul fronte della procedura di infrazione comunitaria, dopo l’invio delle deduzioni difensive da parte del Governo italiano, l’assessore annuncia una missione a Bruxelles nelle prossime settimane. Intanto la risposta della Commissione Europea potrebbe anche slittare: «Di mezzo ci sono le elezioni europee - ricorda l’assessore – e quindi è possibile che il responso venga espresso dopo il voto».

ETICA MINIMA
Le favole antiche restano un prezioso giacimento di etica minima. Per esempio "La rana che scoppia e il bue" di Fedro. La favola dice che una rana, presa da invidia per il bue, comincia a gonfiare la sua pelle rugosa. Chiede ai suoi piccoli: sono più grossa del bue? No, le rispondono. Allora cerca di gonfiarsi ancora di più. Il bue è più grande, le dicono ancora. Lei si arrabbia e tende allo spasimo la sua pelle, finché «rupto iacuit corpore», rimase a terra con il corpo scoppiato.Questa favola, peraltro assai nota, è stata recentemente usata per dileggiare Michele Santoro e la sua trasmissione televisiva Annozero, colpevole di mancata pietas nei confronti delle vittime del terremoto abruzzese. «Ma almeno scoppio da solo», pare abbia commentato Santoro.Le favole antiche sono ancora una miniera perché, nella loro brevità, contengono una ricchezza di messaggi, e spesso non mancano di ironia. Osserviamo solo il particolare di quei natos (cioè, i figli della rana) che con i loro «no» un po' sadici sembrano assai poco rispettosi delle pene che si dà la madre per gonfiarsi. D'abitudine Fedro mette la cosiddetta morale all'inizio e qui dice: «Inops, potentem dum vult imitari, perit». Il poveraccio, se si mette a imitare il potente, crepa. Ma chi è qui il potente, chi è il bue?Per noi, il bue non è certo un modello di potenza, ci ricorda piuttosto l'ottusa stupidità di un animale grande e grosso, dall'obbedienza paziente e alquanto opaca. Provate a dire a un potente: sei come un bue! Difficile che lo accetti come un complimento. La rana ci risulta molto più simpatica. È bruttina, ma almeno salta, si dà da fare, e quello che fa lo fa per sua libera scelta. È istintivo stare dalla parte della rana e perciò il dileggio rivolto a Santoro, servendosi della favola di Fedro, ha l'aria di essere il classico autogol.Ma chi è la rana? Le favole antiche vanno ricondotte alle esigenze dei tempi, e così anche la loro morale. Forse, per noi, la morale di Fedro dice poco, e allora ci converrebbe vedere se questa favola non ne contenga una diversa e più calzante all'oggi. E se i potenti fossero proprio le rane in questione?Meno simpatici, perché è difficile considerarli dei poveracci, anzi orribili nel loro sforzo spasmodico di gonfiarsi a dismisura. Vengono in mente tanti esempi, c'è solo l'imbarazzo della scelta. A noi italiani, viene subito alla mente Berlusconi, pars pro toto. Non è davvero un inops, anzi è ricchissimo, e si presta molto bene a impersonare la favola della rana che si gonfia. Certo, mancheremmo decisamente di rispetto se ci aspettassimo che scoppi a forza di tendere la pelle. E, per tornare un istante a Santoro (che sarà pure lui, nel suo piccolo, una rana), se lui dileggia - come si è supposto - i terremotati non accodandosi del tutto al dolore nazionale, che dire di un vero potente che dichiara di mettere a disposizione dei disgraziati senzatetto alcune delle sue ricchissime ville, per di più lontanucce dal luogo della tragedia?
L'immagine del gonfiarsi (eventualmente fino a scoppiare) è la tipica immagine della presunzione che è un male molto diffuso ai giorni nostri, il contrario di quel bene raro, o rarissimo, che è il pudore. Pudore nella esternazione dei sentimenti, e soprattutto pudore nell'attribuire alle proprie idee il tono della verità assoluta. È il nostro beneamato "io", caro agli psicologi, che si gonfia facendola da padrone, oltrepassando ogni ragionevole limite. Qualcuno l'ha chiamato «delirio di onnipotenza», e ci ha raccontato che è una cosa da bambini più che da adulti. Qualcun altro ha coniato l'espressione «inflazione dell'io» e ha pensato soprattutto agli abitatori adulti della nostra attuale società omologata e consumistica. Inflazione è una parola presa dall'economia e contiene proprio il gonfiarsi di coloro (tutti?) che aspirano a diventare sempre più potenti.Forse, nella favola di Fedro, sono proprio i bambini, gli impertinenti piccoli della rana, a fare la differenza.Pier Aldo Rovatti

PARLA L’AD DELLA FIAT
di ANDREA DI STEFANO
MILANO Una vera partita a poker, come sottolinea il settimanale «Economist». L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne dopo un’intensa giornata di riunioni e incontri tornerà oggi negli Stati Uniti per proseguire le trattative in vista della chiusura dell’intesa per Chrysler.Nello stesso tempo continuano i contatti con Opel, la casa automobilistica tedesca controllata da General Motors, che ieri Marchionne ha confermato pur subordinandoli, in ordine di tempo, alla conclusione del confronto sulla Chrysler.L'amministrazione Obama resta concentrata a cercare di far sì che Chrysler e Fiat raggiungano un accordo. L’ha affermato un rappresentante dell'amministrazione, smorzando le indiscrezioni secondo le quali la più piccola delle case automobilistiche Usa sarebbe avviata verso la bancarotta. Il Tesoro statunitense recupererebbe solo una «piccola quota» del prestito accordato a Chrysler nel caso di bancarotta. È la stima del Government Accountability Office (Gao) , la Corte dei conti americana.Da parte Marchionne, dopo aver approvato i conti della trimestrale chiusi con una leggera perdita della gestione ordinaria (pari a 48 milioni di euro a fronte di un utile della gestione ordinaria di 766 milioni di euro nel 2008), ha illustrato lo stato dell’arte della trattativa con Chrysler: Fiat può salire al 51% nel capitale della casa statunitense. Asset strategici del Lingotto in Chrysler permetteranno a Fiat di salire inizialmente del 20% nella casa americana per passare al 35% «al raggiungimento di determinati obiettivi». La Fiat possiede inoltre una call option di 7 anni per salire di un altro 16% in Chrysler ma non potrà comunque ottenere la maggioranza finché la casa automobilistica Usa non restituirà i prestiti avuti dal Tesoro Usa. Marchionne ha ribadito che «non ci sarà alcun investimento cash o alcun impegno a un finanziamento in Chrysler in futuro» e che l’intesa è condizionata al raggiungimento di un accordo finale con i proprietari di Chrysler entro il 30 aprile come stabilito da Washington. Con Chrysler, Fiat darà vita al sesto maggiore gruppo mondiale dell’auto con un volume di oltre 4 milioni di unità.La complementarietà geografica con Chrysler permetterà a Fiat di guadagnare accesso ai mercati del Nordamerica e sostenere lo sviluppo di Chrysler in Europa e America Latina. La complementarietà di prodotti permetterà inoltre a Chrysler accesso nei segmenti A, B e C, nelle piattaforme di veicoli commerciali e nei motori altamente efficienti. Ci saranno inoltre sinergie e livello dei costi e, per Fiat, accesso al mercato nordamericano dei light truck e un ampliamento dei volumi delle società di componenti di Fiat.La trimestrale ha messo in evidenza gli effetti della crisi sul fatturato, sceso del 25,3% ma anche il forte incremento di quote di mercato dove Fiat punta a raggiungere una quota del 9%. Marchionne conferma un piano di taglio costi da 500 milioni di euro: oltre ai tagli già effettuati da inizio 2008 (-8.500 dipendenti) il gruppo ridurrà gli addetti di Cnh (società dei trattori) del 10-15% ma non intende lasciare Iveco e Cnh. Molti analisti sono convinti che i contatti tra Opel e Fiat rappresentino, allo stato, uno strumento di pressione sui sindacati Usa e le banche creditrici di Chrysler. L’ipotesi ha già trovato forti oppositori in Germania: in prima fila il sindacato Ig Metall di Francoforte che paventa l’eliminazione di posti di lavoro e chiusure di impianti. Fiat e Opel, che in Germania occupa 25 mila addetti, «non si completano ma al contrario vi sono troppe sovrapposizioni» sottolinea Ig Metall. Anche i sindacati italiani mostrano preoccupazioni.

Yoani Sánchez, com’è nato il suo blog e perché si chiama Generación Y?«L’ho cominciato ad aprile 2007 per un impulso personale, per il bisogno di raccontare tutto quel che non appare nella stampa nazionale. Generación Y perché tanti cubani tra i 25 e i 40 anni hanno i nomi che incominciano per Y come Yanisleidi, Yoandri, Yusimí, Yuniesky. Era uno dei pochi modi che i nostri genitori avevano di sbizzarrirsi con la fantasia, un fenomeno linguistico molto interessante che nasce da una generazione che ha vissuto sulla propria pelle la frustrazione del processo sociale».Lei ha scelto di raccontare la vita di Cuba come se la vedesse dal balcone di casa sua. Che cosa ha trovato?«Che nella quotidianità cubana si accumulano tanti démoni, l’apatia, l’indifferenza, le frustrazioni, le limitazioni materiali, tutto ciò fa sì che le persone facciano fatica a concentrarsi in un progetto personale. Oltre a farsi una famiglia non possono pensare altro».E perché giorno per giorno?«Per far capire a chi legge le emozioni del mio animo, quando le mie energie sono basse, quando mi sento male per le difficoltà economiche, il che ha creato un rapporto forte con il lettore» Il suo blog è diventato un caso internazionale e lei un simbolo della lotta al regime. Ma lei si sente simbolo?«Non era questa la mia intenzione, non immaginavo che il blog si convertisse in un grande fenomeno. La Rete lo ha fatto diventare un caso internazionale, ma alla base di tutto rimane la necessità di noi cubani di poter avere una piazza pubblica. Io ne sono il simbolo? Può darsi. Per me per ora il simbolo è Generación Y, la piazza virtuale in cui far circolare idee sperando che in futuro diventi uno spazio reale. Il resto l’hanno fatto i commenti dei lettori con la loro energia e i molti interventi».Lei ha ricevuto premi letterari in Europa, ma non ha potuto ritirarli perché le è stato vietato lasciare Cuba. Come ha vissuto questi divieti?«Come fossi un bambino a cui il padre proibisce di allontanarsi. Continuamente a Cuba dobbiamo chiedere permessi, figurarsi per uscire dal Paese. Questo Gran Padre autoritario che è lo Stato Cubano identifica e giudica i cittadini per il colore delle loro idee e concede i permessi in base a questo. Il costo personale che ho dovuto pagare per il mio blog è appunto non poter uscire da Cuba. L’ho vissuto come una grande impotenza e l’ho sostituito col viaggio virtuale».Adesso Cuba le vieta di venire a Torino alla Fiera del libro. Eppure qui si ha la sensazione che da un giorno all’altro lei possa avere il permesso.«A me piacerebbe tantissimo materializzare questo viaggio, ma non lo credo. Il governo cubano non potrebbe mai autorizzarmi, se lo facesse dovrebbe fare altrettanto per i tanti altri casi simili al mio che si stanno moltiplicando nell’isola. In questo momento delicato, di transizione non se lo può permettere. Qualsiasi cambiamento anche piccolo potrebbe rodere il potere. Raúl e i suoi sanno di dover implementare qualche cambiamento ma non un’apertura che gli tolga il potere e cambi radicalmente la società cubana. Magari fosse così».Perché altri scrittori cubani - il più famoso è Leonardo Padura - possono venire in Europa e lei no?«La maggior parte di essi rappresenta la burocrazia intellettuale che sta sotto l’ombrello dell’Unione degli scrittori di Cuba, anche quando la loro letteratura è critica e mantiene le distanze dal potere. Io faccio una critica dove non c’è niente di innocente, niente che non sia intenzionale e utilizzo una violenza verbale che metta a nudo i concetti di socialismo, rivoluzione, dittatura denunciandone il limite fondamentale: aver violato la coscienza delle persone».Nel 2002 lei aveva lasciato Cuba per la Svizzera. Che cosa l’ha convinta a tornare?«La famiglia che avevo lasciato all’Avana, la difficoltà di vederci. In Svizzera ho scoperto Internet ma la mia vita era a Cuba, sia pure in un’altra Cuba».Lei sa che in Europa molti ambienti politico-culturali approvano la Rivoluzione Cubana, pensano che Fidel e Che Guevara abbiano liberato l’isola dalla schiavitù e già solo per questo sono scettici verso il dissenso. Cuba sarà anche cambiata dai tempi di Batista?«Innanzitutto voglio dire a tutti quelli che sono innamorati della Rivoluzione cubana che da tanto tempo non abbiamo più una rivoluzione, abbiamo una dittatura che controlla la società; le rivoluzioni non durano cinquant’anni, sì ci sono stati tanti cambiamenti ma ad un prezzo troppo alto. Ed è impossibile pensare che comunque - socialismo o no - Cuba non avrebbe avuto uno sviluppo sociale al passo con i tempi».La conferenza di Trinidad e Tobago apre le speranze per il disgelo con gli Usa. Cosa se ne dice all’Avana?«Tra i cittadini c’è entusiasmo e allegria, l’idea che finalmente Obama possa superare la formula dello scontro in atto da cinquant’anni, e che ha funzionato perfettamente perché Fidel giustificasse all’interno il disastro economico e la mancanza di libertà. Ma per quel che ne so la stampa socialista si mostra molto cauta anche se credo che “Granma” non abbia riportato esattamente le parole di Obama. Francamente non riesco ad immaginare come si può costruire un discorso politico a Cuba senza additare il Mostro capitalistico come responsabile di ogni male».Hillary Clinton ha detto che cinquant’anni di embargo sono stati un disastro per la politica nordamericana. E per Cuba?«Ha funzionato dato che è stato lo strumento ideale che gli Stati Uniti hanno regalato a Fidel per convincere tutti i cubani di essere prigionieri e isolati dal Mostro. Ma ormai tutti ci rendiamo conto che non è più così, che non siamo David contro Golia, siamo cittadini del mondo bisognosi dei diritti che tutti gli altri hanno. E per il governo sarà molto più difficile controllare».Quali speranze nutre in Obama? E in Raúl Castro?«Obama è un uomo che si muove con il ritmo del nostro tempo. Raúl no, è un uomo del Ventesimo secolo, che ha ereditato il potere per sangue e successione dinastica. Non ho fiducia nel suo ruolo di presidente, ma siamo noi cittadini a dover fare i primi passi».Quelle di Raúl sono vere riforme?«Finora no. Sono rimedi cosmetici molto superficiali che non hanno influito nella vita quotidiana. Ha aperto ai cellulari e all’acquisto dei computer solo per legittimare quanto già accadeva con il mercato nero. Resta il fatto che il peso cubano non é convertibile dunque non esiste un minimo di libertà civile né economica, che permetta di comprare un’auto, una casa, non è favorita la nascita di piccole imprese che possano produrre un minimo sviluppo per non dire della libertà di dar vita a gruppi di opinione, gruppi ecologici, sindacati, partiti politici o giornali differenti da quelli del regime».Dopo il blog ha idea di scrivere un romanzo di fantasia?«In questo momento sto scrivendo un manuale per blogger cubani, per spiegare come superare gli ostacoli più difficili, ma vorrei sì scrivere un romanzo molto post-moderno e pazzo che stia tra il mondo virtuale e quello reale».Che cosa crede accadrà alla morte di Fidél?«Molto cambierà anche se questo è un Paese abituato a identificarsi in un solo uomo. Per ora la malattia è stata usata come arma di transizione, ma Fidel continua ad avere un peso simbolico importante per i cubani, tuttavia il futuro è già cominciato e non potrà proseguire sotto la volontà di un uomo al comando. Per ora Fidel ha consegnato una sua riflessione a “Granma” sulle dichiarazioni di Obama. Naturalmente lo critica, dice che la conferenza panamericana non è stata affatto importante, ma quel che si capisce è che il regime sta scegliendo la prudenza».
L’azienda mantiene la sede legale ma una linea di produzione e 21 addetti: 38 tagli
di SILVIO MARANZANA
Mantenimento della sede legale e della produzione della Stock a Trieste, ma un altro pesantissimo taglio con la scure all’organico: dai 59 dipendenti attuali a 21. Quest’ultimo dato comunicato ieri ai rappresentanti sindacali ha seminato il panico nell’assemblea che si è subita svolta nello stabilimento di via Caboto e ha proclamato anche due ore di sciopero. Claudio Riva, managing director della società ha sostenuto in mattinata nel corso dell’incontro tenutosi nella sede di Assindustria di avere un mandato molto stretto e quindi sostanzialmente non trattabile se lo scopo finale di tutti è appunto quello di mantenere a Trieste un brand storico e prestigioso come Stock, oggi proprietà del fondo statunitense Oaktree.Per fare tutto questo ed evitare di trasferire la produzione italiana in Polonia e nella Repubblica ceca dove già oggi sono operanti due stabilimenti che sfornano con un costo del lavoro proporzionalemente molto inferiore quantitativi ben più sostanziosi, a Trieste bisogna tagliare drasticamente i costi e far crescere la produttività. Se oggi 38 operai e 21 impiegati producono 12 mila bottiglie all’ora, domani 12 operai e 9 impiegati dovranno produrne 18 mila. Un dato che secondo i sindacati prefigura un futuro difficile non solo per chi verrà espulso dall’azienda, ma anche per coloro che si salveranno dai tagli.«Una tristezza vedere una fabbrica di prestigio internazionale come la Stock ridotta a una bottega artigiana dato che appunto rischiano di rimanervi una ventina di dipendenti», ha commentato Fulvio Marchi, segretario di Flai-Cgil. «Siamo fiduciosi di raggiungere un accordo con le rappresentanze sindacali - l’opinione contraria espressa dallo stesso Riva - Se da una parte siamo consapevoli che stiamo chiedendo sacrifici nel breve termine, dall’altra siamo altrettanto convinti che si avranno notevoli vantaggi nel tempo. Riusciremo ad avere un impianto produttivo che susciterà la stima da parte dei nostri competitors. Stock resterà un’azienda con base a Trieste. Fatto ancora più importante, libereremo risorse da investire nel futuro della nostra azienda e dei brand Stock».Il piano industriale presentato ieri prevede la riduzione delle attuali tre linee di produzione in una soltanto che però verrà rafforzata e resa più efficiente con un investimento di un milione e 600 mila euro. Altri 200 mila euro saranno investiti nella formazione del personale, mentre verrà condotta un’aggressiva campagna pubblicitaria con 2,5 milioni per promozionare il limoncello Limoncé e un milione per la vodka Keglevic.«La trattativa in realtà non è ancora partita, ma entreremo nel dettaglio tecnico della questione nel prossimo incontro già programmato in Assindustria per mercoledì 29 - ha tentato di fare coraggio Luca Visentini, segretario regionale Uil - si tratta di verificare se i ritmi di produzione prospettati sono insostenibili come effettivamente sembra e di capire perché, se è vero che la nuova moderna linea di produzione che verrà installata è in grado di produrre com’è stato affermato, fino a 60 milioni di bottiglie all’anno, non viene sfruttata al massimo, mantenendo un maggior numero di persone nell’organico, anziché farla funzionare a ritmo ridotto per 18 milioni di bottiglie. L’impressione - ha concluso Visentini - è che l’azienda abbia voluto sparare forte dando per scontato un margine di trattiva». «La definizione della riduzione di personale - ha rilevato Stock Italia in una nota - è soggetta alla negoziazione con i sindacati». «Con tre linee è già capitato che una si bloccasse, ma lo stabilimento era riuscito comunque a produrre con le altre due - si è chiesto Marchi - non ci sono rischi gravi puntando su una linea soltanto?».Lo snellimento dell’azienda e la crescita della produttività sarebbero propedeutici a una sua futura vendita quando però il mercato avrà ripreso una curva positiva. È questa infatti la politica economica usualmente seguita dai fondi di investimento con il ciclo acquisto-vendita che solitamente si compie nel giro di cinque anni. Oaktree ha acquistato la Stock agli inizi del 2008, dunque ha ancora tempo prima di dover completare l’operazione.
Otto persone assolte per insufficienza di prove. Si è chiuso così l’ultimo capitolo del processo nei confronti di alcuni tifosi della Triestina, che si erano resi protagonisti di un violento attacco ai danni dei poliziotti della Digos di Treviso il 9 novembre del 2003. Gli agenti della questura locale avrebbero dovuto accompagnarli alla stazione dei treni di Lancenigo per permettere loro di fare rientro a Trieste. La partita di calcio contro la squadra veneta, derby particolarmente sentito, si era appena conclusa con un risultato negativo per gli ospiti: l’Alabarda era infatti uscita dal campo sconfitta per 2-1.All’epoca, però, subito dopo aver lasciato lo stadio Tenni, circa trenta tifosi triestini si erano introdotti in un vicino cantiere di una casa in costruzione: da lì avevano portato via sassi, mattoni e spranghe, dando il via a una sorta di «guerriglia urbana» con la polizia, durante la quale ad avere la peggio era stato il capo di gabinetto Luca Migliorini. Quest’ultimo aveva rischiato di perdere un occhio, riportando peraltro la frattura del setto nasale. Gli agenti avevano reagito lanciando dei lacrimogeni. Nel pandemonio generale erano venuti a trovarsi, loro malgrado, anche altri sostenitori della Triestina, estranei alla sassaiola e poi saliti regolarmente a bordo del pullman per la stazione.Quel giorno, dieci persone erano così finite in manette, con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, danneggiamento (12 mila euro solo i danni ai pullman) e violazione di domicilio.Nel corso degli anni, dei 26 tifosi alabardati coinvolti nel processo, otto hanno patteggiato una pena detentiva della durata compresa fra gli otto mesi e l’anno. Un altro è stato condannato per decreto penale, mentre nove posizioni sono state archiviate. Infine, ieri, il pm Miggiani ha chiesto l’assoluzione degli ultimi otto tifosi rimasti ancora «sospesi», in attesa di giudizio. Richiesta che il tribunale trevigiano ha accolto. Questi i nomi degli assolti (rappresentati e difesi dagli avvocati Giovanni Adami e Loredana Jerman): Giuliano Benvenuti, Paolo Pugliese, Davide Biagi, Mario Sorgio Vanni, Walter Gentile, Lorenzo Guassi, Davide Paoletich e Mauro Puntin.Il caso vuole che la sentenza in questione, emessa sulla base del secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale (in sintesi, assoluzione per insufficienza di prove), sia arrivata proprio nella settimana in cui, domani alle 16, la Triestina scenderà in campo a Treviso. Un confronto valido anche in questa circostanza per il campionato di serie B.Ricordando i fatti di quel 9 novembre di quasi sei anni fa e i successivi passaggi legali, va rammentato anche che i sostenitori dell’Unione diedero vita, qualche tempo dopo l’accaduto, a una vera e propria colletta per risarcire in qualche modo gli agenti. La tifoseria riuscì a raccogliere complessivamente 25mila euro.

L’AUTOSTRADA PER LA MONTAGNA SARÀ A PAGAMENTO
di MARTINA MILIA
PORDENONE Da gennaio 2010 raggiungere le Dolomiti sarà più semplice per gli appassionati di montagna. A fine anno sarà, infatti, completata l’autostrada A 28 che in trenta minuti circa consentirà di collegare l’autostrada Trieste-Venezia (A 4), da Portogruaro, alla Venezia Belluno (A 27), all’altezza di Conegliano. L’autostrada sarà anche un’alternativa alla A 4 – in attesa della realizzazione della terza corsia -, un’alternativa che però si pagherà. Se oggi l’arteria, percorribile fino a Godega Sant’Urbano, è a libera circolazione, con l’apertura dell’ultimo lotto arriveranno anche le barriere per la riscossione delle tariffe. E su quella intermedia di Cimpello (Pordenone) la partita non è ancora chiusa: da Pdl e Lega arrivano richieste perché sia eliminata.ULTIMO LOTTO Autovie Venete conta di ottenere la transitabilità dell’opera entro dicembre. Questo significa che, anche se i lavori appaltati alla Cmb di Carpi dovessero concludersi nei primi mesi del prossimo anno (la scadenza è fissata al 31 marzo), l’autostrada potrà essere aperta prima. Il cantiere del lotto 29, 4,9 chilometri tra Godega e Conegliano, è stato avviato a fine 2007. Il cronoprogramma prevedeva la conclusione per la primavera 2010, ma per accelerare le procedure sono stati raddoppiati i turni degli operai ed è stato aumentato il personale: da marzo i 110 lavoratori sono diventati 150 e il cantiere è aperto dalle 6 di mattina alle 22. L’impegno di spesa complessivo è pari a 84 milioni 800 mila euro, su cui pesa un 20 per cento circa di costi per la mitigazione ambientale. IL CANTIERE I lavori stanno proseguendo e, oltre alle opere autostradali vere e proprie, sono previsti interventi sulla viabilità ordinaria. Il tracciato del Lotto 29 interferisce con alcune vie che saranno sistemate in sovrappasso. C’è inoltre la modifica del tracciato in corrispondenza di abitazioni. Per risolvere i problemi di viabilità locale sono poi realizzati incroci a raso canalizzati. La Cmb si è aggiudicata anche l’appalto per la riasfaltatuta del lotto 28 – procedura di routine per consentire l’assestamento del manto stradale – e la realizzazioni dei caselli autostradali. I CASELLI La vera incognita sull’opera oggi è quella che riguarda le barriere di intercettazione. Il piano approvato da Anas prevede, oltre alla barriera di Portogruaro e Conegliano che intersecano rispettivamente l’autostrada con la A 4 e la A 27, la realizzazione di una barriera a Sacile e di una intermedia a Cimpello. Su quest’ultima il dibattito è aperto. Il progetto attuale prevede che sia posizionata (venendo da Portogruaro) prima di Cimpello, per intercettare il traffico dell’interland pordenonese. Le forze politiche di maggioranza, Pdl e soprattutto Lega Nord, stanno però tirando per la giacca l’assessore alla Infrastrutture Riccardo Riccardi affinché la barriera sia eliminata e sia trovata una soluzione alternativa che non gravi sulle comunità locali. Una soluzione non certo facile da individuare per la Regione che deve fare i conti con le pressioni politiche, ma anche con i flussi di traffico – e in particolare la compressione della statale 13 e i relativi problemi di sicurezza – e con l’equilibrio economico e finanziario della concessione che ha permesso di realizzare l’opera. IL PEDAGGIO Oltre che dal territorio pordenonese, anche dalla provincia di Treviso, nei mesi scorsi, sono arrivate richieste affinché l’autostrada resti “free”. L’ipotesi è inapplicabile a meno che le Regioni non decidano di farsi carico dei costi, possibilità altrettanto remota vista la necessità di remunerare l’investimento. Fatto salvo il tempo di realizzazione delle nuove barriere, non ancora accertato, l’apertura di tutta l’autostrada comporterà anche l’inizio del pagamento per gli utenti. La tariffa di percorrenza di un tratto autostradale – cifre per la A 28 ancora non ce ne sono - è legata ai chilometri e ad una quota “virtuale” che copre i costi di manutenzione e di realizzazione di tratte esterne al sistema chiuso dell’autostrada (come ad esempio i raccordi). Nel caso della A28 chi esce oggi dalla A4 a Portogruaro (o vi entra) sconta un pedaggio virtuale di 15 chilometri. Con il nuovo sistema questo costo sarà spalmato: cinque chilometri saranno calcolati a Portogruaro, dieci a Cimpello e altri cinque a Sacile.
di PAOLO MANTOVAN
L’AQUILA Silvio Berlusconi porterà Obama e gli altri capi di stato in una caserma della guardia di finanza, a L’Aquila, nel cuore della terra ferita dal sisma. Il premier lo ha annunciato proprio là, dentro la roccaforte di Coppito, nella gigantesca scuola delle Fiamme Gialle che ora funge da quartier generale della Protezione civile all’Aquila e che ieri ha ospitato la riunione del consiglio dei ministri che ha approvato il decreto da 8 miliardi per la ricostruzione.Al mattino, appena entrato in caserma, il presidente aveva offerto un’anticipazione: «Sarebbe giusto spostare il G8 dalla Maddalena all’Aquila. Così si potrebbero risparmiare molti soldi e utilizzarli per questa regione». E mentre la seduta era in corso già si moltiplicavano le reazioni: risentite dalla Sardegna, compiaciute dall’Abruzzo.Berlusconi non si è scomposto e all’ora di pranzo ha esibito il colpo di teatro con un tono soffice: «La Maddalena è un gioiello che avrà grandi occasioni per risplendere. Ma organizzare il G8 nell’isola ci costerebbe 220 milioni, che è meglio usare qui. Così come è meglio ospitare qui, in quest’area di 520 mila metri quadri, i capi di stato, le delegazioni e i giornalisti».La priorità è L’Aquila, dunque, e la Maddalena può attendere. L’idea dello spostamento era venuta a Guido Bertolaso, alcuni giorni dopo il terremoto. Il capo della Protezione civile ne aveva parlato con Berlusconi durante una delle visite nelle zone colpite: «Perché non fare qui il G8 di luglio, per dare un segnale forte alla popolazione abruzzese?». Berlusconi ha capito subito che si trattava di una folgorazione e ha chiesto a Maroni di fare tutte le verifiche sul piano della sicurezza.In verità, la paternità dell’idea è contesa, perché anche il presidente della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi, berlusconiano doc, rivendica la primogenitura. Ma il Cavaliere ci ha creduto subito anche perché ricordava lo slancio impresso dal medesimo appuntamento (allora era un G7 e c’era Eltsin come osservatore) a Napoli: dopo quel summit del ’94, il capoluogo campano rifiorì e conobbe il famoso «rinascimento». E così ieri Berlusconi ha sciolto le riserve, superando anche le residue resistenze interne al consiglio dei ministri.Un consiglio, tra l’altro, che è stato una mini-prova generale verso il grande incontro di luglio. Il governo si è riunito in una sala trasformata, che sembrava la fotocopia di Palazzo Chigi: mercoledì, silenziosamente, erano già state trasferite là le sedie dei ministri, e un pacco di stemmi della presidenza del consiglio campeggiavano ognidove, per non tacer degli uscieri in livrea, arrivati di buon mattino al seguito della folta squadra di funzionari.Persino l’improvvisata sala stampa ricordava l’originale sede romana, salvo lasciar trapelare qualche crepa nel muro scrostato e provato dalle ripetute scosse di queste settimane. Sicuramente ci sarà bisogno di qualche ritocco alle stanze della Caserma Giudice di Coppito, ma il premier sfodera ottimismo. E lo giustifica così: «Nel summit è prevista una sessione di lavoro sulla prevenzione e gestione delle calamità naturali: quale sede più appropriata di una terra ferita dal terremoto per parlarne? E poi - ha proseguito Berlusconi - la Maddalena è troppo bella e sarebbe stato un G8 non consono al momento che passiamo per la crisi economica. Non credo che i no global abbiano la faccia e il cuore per dar luogo a manifestazioni dure qui, nel cuore del sisma». E così ha chiuso la partita.In serata sono arrivati i primi sì da Washington e da Londra: praticamente è fatta. C’è «solo» da organizzare un super summit in mezzo all’emergenza degli sfollati.

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